“Un pacchetto controllato di notizie”: questo è ciò che il governo avrebbe dovuto quotidianamente indirizzare ai giornali secondo il suggerimento fornito in un documento riservato dal consigliere statunitense Steve Pieczenik, inviato dal Dipartimento di Stato americano in Italia nel corso dei 55 giorni del sequestro Moro. I rapporti con la stampa andavano orchestrati in modo da gestire alla fonte (il Viminale) il flusso di notizie in uscita per evitare deprecabili fughe di dati sensibili, ma soprattutto per impedire che la totale assenza di informazioni inducesse i giornalisti più intraprendenti ad andare a cercarle in modo autonomo, o peggio, inventarle di sana pianta. In un momento di emergenza come quello bisognava sorvegliare la stampa, ma senza darlo a vedere, limitandosi ad aprire e chiudere i rubinetti delle notizie.
Se si sfogliano le pagine dei principali quotidiani appare chiaro che il consiglio venne attuato perché si resta sorpresi dalla sostanziale uniformità e sobrietà informativa della carta stampata. I giornali, infatti, si distinsero per un’impaginazione vigile che alternava con professionale regolarità pezzi di colore sulla società, sul mondo politico e sulla famiglia Moro a servizi sul fronte delle indagini (spesso a doppia firma per paura di attentati ritorsivi “ad personam” dal momento che i giornalisti più esposti erano soliti girare con la penna biro e il laccio emostatico nella borsa).
Ad esempio, il Corriere della Sera, i cui vertici proprietari e giornalistici si sarebbe scoperto nel 1981 erano allora controllati dalla P2 di Licio Gelli, fino alla fatidica giornata del 18 aprile dedicò al sequestro non più di due pagine al giorno (la prima e la seconda con occasionali richiami in cronaca di Roma). Tuttavia dal 15 aprile soffrì di un vero e proprio blocco informativo che si sciolse soltanto il 19 successivo con la doppia notizia della scoperta del covo di via Gradoli e del falso comunicato del lago della Duchessa che annunciava il decesso di Moro. Nei tre giorni precedenti quest’azione il giornale ridusse a una sola pagina i suoi servizi e gli stessi giornalisti lamentarono il “black out delle informazioni decise dal Viminale”, peraltro condiviso con le principali testate italiane.
Sin dai primi giorni del sequestro i giornali batterono in modo martellante in particolare su tre chiodi: il primo riguardò il conflitto tra fermezza e trattativa; il secondo, l’autenticità delle lettere di Moro con un profluvio di articoli dedicati alle possibili tecniche di manipolazione e di coercizione della volontà di un prigioniero, dall’uso della tortura ai pareri giurati di grafologi e di criminologi strenui assertori di una sorta di “sindrome di Stoccolma” all’amatriciana fino alle iniezioni di “Pentothal”, un farmaco che, in quegli anni, già popolava l’immaginario collettivo degli italiani grazie alle avventure di un fumetto di successo come “Diabolik”; il terzo interessò il ruolo e la funzione degli intellettuali davanti alla minaccia terroristica.
Il primo e il secondo dibattito si intrecciarono tra loro e, come era forse inevitabile, la discussione si contraddistinse per un’estrema strumentalizzazione: chi era per la trattativa pubblica riteneva le lettere autentiche, rimuovendo il tema delle condizioni di cattività in cui venivano elaborate e la capacità dei brigatisti di condizionarne la recezione mediante un’accorta strategia di recapiti pubblici e riservati funzionale a mettere in cattiva luce la figura di Moro davanti all’opinione pubblica; chi era per la fermezza, invece, le riteneva estorte con la violenza e quindi non “moralmente ascrivibili” a Moro, nonostante l’indubbia coerenza del dettato e il rigore della riflessione avrebbero dovuto indurre a una più prudente considerazione. Di certo, l’uso e l’abuso delle posizioni volte a minare l’autorevolezza di Moro e la sua stessa dignità morale costituirono anche una cinica controffensiva dell’antiterrorismo resasi necessaria per abbassare il valore dell’ostaggio così da sminuire il potere di ricatto spionistico-informativo posto in essere dalle Brigate rosse con l’espediente propagandistico del “processo popolare” a Moro e alla Dc. Un’immagine, quella del “processo al regime democristiano”, che già abitava l’orizzonte di attesa del pubblico italiano dai tempi degli scritti di Pier Paolo Pasolini e di Leonardo Sciascia, del film Todo Modo di Elio Petri nel 1976 e dal celebre discorso dello stesso Moro in Parlamento un anno prima di essere rapito, in cui aveva annunciato che “la Dc non si sarebbe fatta processare nelle piazze”.
In ambito culturale si inasprì la discussione sull’impegno o il disimpegno degli intellettuali davanti al terrorismo. Il sasso lo scagliò per primo lo scrittore Alberto Moravia in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 20 marzo 1978, laddove sostenne che il suo sentimento di fronte a quanto stava avvenendo in quel periodo era di profonda “estraneità che non era indifferenza”. Leonardo Sciascia, in un’intervista apparsa sul quotidiano la Repubblica tre giorni dopo, concordava con Moravia sottolineando di avere profetizzato già nel 1974, nel libro Todo modo, l’autodistruzione della Dc e aggiungendo che bisognava accettare di partecipare come giurati popolari al processo di Torino contro il nucleo storico delle Br soltanto per un dovere verso se stessi, ma non già verso lo Stato.
In un contesto politico e civile tanto delicato, l’insolita convergenza tra Sciascia e Pasolini suscitò una dura reazione degli intellettuali più vicini al Pci. Ad esempio, polemizzò con lo scrittore siciliano il direttore di Paese Sera, Aniello Coppola, che gli rimproverò di avere rivendicato per sé l’opportunistica posizione di “silenzioso osservatore”. Sciascia reagì accusando Coppola di essere “intollerante, stalinista, dogmatico, intimidatorio” e di fare del “terrorismo verbale”: una reazione veemente che arrivava dopo oltre un anno di polemiche tra Sciascia e gli ambienti politici, culturali e giornalistici prossimi al Pci. Tra i dirigenti comunisti si era distinto Giorgio Amendola che aveva accusato di viltà, disimpegno e ipocrisia (“nicodemismo”) – come già avvenuto ai tempi del fascismo – quella parte del mondo intellettuale italiano che, per diversi motivi, strizzava l’occhio alla sovversione e alla lotta armata.
A questa vera e propria “guerra di carta”, cominciata con il movimento del 1977, parteciparono i principali quotidiani dell’area di sinistra dell’epoca. A partire da l’Unità con una serie di interventi del suo direttore Alfredo Reichlin e del filosofo Eugenio Garin, ai quali risposero su il manifesto Rossana Rossanda e il germanista Cesare Cases. Il 24 marzo 1978 sul quotidiano comunista uscì anche l’articolo di un giovane dirigente di Torino, Giuliano Ferrara, in cui si criticava la tendenza a considerare il fenomeno brigatista come il frutto di un complotto reazionario o straniero, una “trappola” che induceva a sottovalutare il suo potere persuasivo presso “i settori di punta dell’estremismo politico, del partito armato e del movimento armato” italiano.
In un’intervista del 19 marzo 1978 rilasciata a Walter Tobagi (un uomo e un riformista mite che nel 1980 sarebbe caduto sotto il piombo terrorista a 33 anni, con tutta la vita davanti), il vice-direttore di Lotta Continua Gad Lerner attaccava il Pci per “non aver fatto i conti fino in fondo né con lo stalinismo né con l’integralismo di partito e questo ha fatto sì che in passato i suoi stessi dirigenti abbiano compiuto azioni non molto diverse da quelle delle Br”. A proposito dei Brigatisti rossi, Lerner precisava che se continuiamo a chiamarli “compagni che sbagliano”, “lo diciamo non per ammiccare alle Br, ma per eliminare forme di rimozione che sono presenti nella sinistra”: “fra loro ci sono ex militanti nostri come del Pci” e nei comunicati brigatisti c’è qualcosa di “russo” che ricordava il Pci. Un mese dopo, sempre Lerner, difendeva le ragioni della trattativa per la liberazione di Moro affermando che Lotta Continua e il movimento avevano “rotto i ponti con una concezione politica (comune al Pci e alle Br) che mette al primo posto la ragion di partito e la militanza intesa come dedizione e sacrificio di sé. E hanno rotto con una morale per cui il fine giustifica sempre i mezzi. Per questo i nostri militanti esprimono livelli di umanità superiori a quelli dei politici di professione; il fatto di essere sganciati dal concetto di ragion di Stato ci permette di tenere in conto anche la vita di un nostro nemico”. Egli sosteneva di essere contro “il fermo di PS e anche contro il fermo di Br” e si diceva persuaso che la morte di Moro, voluta dalla Dc e dai “politici di professione”, sarebbe servita a far passare leggi repressive eccezionali e avviato una trasformazione dello Stato in senso autoritario.
Per fortuna questa svolta autoritaria (che in molti auspicavano per dimostrare l’ipocrisia del sistema parlamentare borghese e favorire il ritorno di fiamma rivoluzionario) non ci fu, ma il conflitto culturale, civile e politico approfonditosi in quei mesi si sarebbe ulteriormente radicalizzato dopo la morte di Moro, assumendo la forma di una definitiva frattura tra istituzioni e società civile, partiti e movimenti. Alcuni sarebbero invecchiati dentro quel conflitto adeguandolo con millimetrica abilità all’evoluzione dei tempi nuovi, altri lo avrebbero ricevuto in eredità, a volte persino inconsapevolmente, come un fossile intriso di nevrosi, conformismo e irrimediabile diffidenza: dalla tragica e iper-politica primavera del 1978 sino a quella uggiosa e anti-politica dei nostri giorni, in cui attendiamo tremebondi le decisioni di Salvini, Di Maio e Renzi.
(5 – continua)