I partiti italiani sembrano avere opinioni molto diverse sulla Siria, ma almeno sul rapporto con la Russia, sponsor del regime di Damasco, hanno una certezza: le sanzioni sono sbagliate. Eppure questa posizione sembra più ideologica che frutto dell’analisi dei dati. Nel 2014 la Federazione Russa si annette la Crimea, violando l’integrità territoriale dell’Ucraina che si stava spostando verso l’Europa. L’Unione europea e gli Stati Uniti reagiscono con il blocco di alcune operazioni finanziarie e l’embargo per vari prodotti. Mosca risponde e mette limiti ai prodotti occidentali vendibili nel suo mercato domestico. Crollano le esportazioni italiane di carne, frutta secca, derivati del latte. Ma a quanto ammonta il danno?
È difficile dirlo. Sulla base di dati dell’agenzia delle dogane russa, l’Istituto per il commercio estero italiano parla di 346 milioni nel 2015, il primo anno in cui i contro-dazi russi hanno fermato l’export italiano. Altre associazioni di categoria danno cifre più alte perché considerano anche prodotti italiani che prima di arrivare in Russia transitavano da altri Paesi europei. Ma non si sa neppure se sia tutta colpa delle sanzioni: nel 2015 il Pil russo è crollato del 2,8 per cento, l’anno dopo si è ripreso solo dello 0,2, una contrazione dei consumi e dunque delle importazioni ci sarebbe stata comunque.
La catena produttiva russa si è subito riadattata, le imprese hanno cambiato fornitori, i consumatori hanno adeguato i propri gusti, le sussidiarie licenziato il personale non più necessario. Cancellare le sanzioni europee per far cadere le barriere russe, insomma, non garantirebbe alle imprese italiane di tornare ai livelli di esportazione del 2014. Quindi, forse, è ora di affrontare la questione dei rapporti con la Russia al netto delle pagliuzze e concentrarci sulle travi, come la dipendenza dal gas (e quindi la questione del Tap in Puglia), gli accordi commerciali con gli Stati Uniti, le guerre combattute per procura in Medio Oriente. L’energia conta molto più che la frutta secca.