Quando i profughi eravamo noi italiani. Quando scappando di casa la notte, per non essere uccisi, ci portavamo dietro sedie, mobili, bicchieri, per conservare una briciola della nostra vita. Quando salivamo noi su navi e barconi. Quando ci mettevano in campi profughi, nel nostro Paese. Quando ci dicevano che rubavamo il lavoro. Quando ci davano dei fascisti perché volevamo vivere in Italia. Quando tacevano la nostra storia perché anche la memoria ha un colore.
“Questa è la Pompei degli italiani d’Istria”, Franco Degrassi entra nel Magazzino 18 del porto vecchio di Trieste. La luce abbacinante di questa estate improvvisa sparisce. Decine di volti ti guardano dalla parete: “Sono bambini, donne, uomini senza nome. Di loro restano solo queste fotografie”, racconta Degrassi, presidente dell’Irci (l’Istituto Regionale per la Cultura Istriano Fiumano Dalmata di Trieste). Degrassi, 78 anni, un passato nella giunta del sindaco Riccardo Illy, è uno di loro: un profugo istriano. E oggi è impegnato a raccontare la storia della sua gente: “Quegli italiani che dal 1943 al 1957 lasciarono la loro terra. Erano 350 mila in Istria, ne restarono forse 20 mila”.
Bisogna partire dal Magazzino 18 per capire. Anche se all’inizio vedi soltanto montagne di mobili, letti. Scaffali zeppi di bicchieri, piatti, aratri, zappe, perfino presepi, quaderni di scuola lasciati a metà. Ma soprattutto sedie. Cataste infinite. Devi guardarle a lungo. Finché vedi case, senti rumori, profumi. “Proprio da questa quantità di oggetti alla fine emergono le persone”, si tormenta le mani Degrassi. “Cominciò quando l’Italia perse la guerra e il confine per i giochi tra nazioni era una linea che andava avanti e indietro trascinandosi la vita della gente”, racconta con passione Piero Delbello, direttore dell’Irci, “Di notte in Istria ti bussavano alla porta e ti portavano via. Sparite, migliaia di persone. Buttate nelle foibe, voragini profonde centinaia di metri. Decine di migliaia partirono. Pola, 30mila abitanti, si svuotò. Strade deserte e duemila persone”. Scrisse il poeta Biagio Marin: “E Pola gera sola co’ case svode in pianto, la sova zente intanto xe sénere che svola”.
I profughi sbarcavano a Trieste. Trascinandosi sedie e mobili, sistemandoli in cubi – uno per famiglia – che racchiudevano la loro esistenza. In attesa di venire a riprenderli un giorno che per molti non arrivò mai. Qualcuno fu ucciso nei quaranta giorni in cui la città finì nella mani di Tito; molti si rifecero una vita in Italia o emigrarono. La diaspora. Il tuo mondo in pezzi. I beni mai recuperati sono ancora qui, testimoni di una tragedia negata per decenni. Da Italia e Jugoslavia. Per difendere le bandiere si sono dimenticate le persone. Su entrambi i fronti.
Gli eccidi fascisti: ad Arbe furono internati 10mila slavi e molti morirono. Poi la strage di Vergarolla, a Pola: le mine che straziano cento italiani sulla spiaggia. E il chirurgo Giuseppe Micheletti che opera per giorni mentre i suoi due figli sono morti. Di uno resterà un calzino che lui conserverà nel camice per tutta la vita.
Poi le foibe. Migliaia di morti innocenti. E noi a chiederci chi avesse ragione. A dare del fascista ai profughi: “Mentre Pola era una città piena di operai. Socialisti”, racconta Delbello. Così ci si è dimenticati delle vittime. Colpite – tutte, italiane e slave – dalla follia del fascismo. Perché fu Benito Mussolini a infiammare l’odio: “Di fronte a una razza inferiore e barbara come quella slava, si deve seguire la politica del bastone”. Colpite poi dal comunismo che divise italiani da slavi e slavi da slavi.
Per ricordare ci è voluto un ragazzo di Roma dai capelli crespi: Simone Cristicchi. Che ha portato la storia dei profughi a teatro: “Ero qui per uno spettacolo e ho chiesto di visitare il Magazzino 18. Mi è mancato il respiro”. Ecco la storia degli istriani. E di Trieste. Città, come nessun’altra in Italia, impastata di diversità. Qui dove alla fine della Grande Guerra c’erano giornali in 4 lingue. Dove vivevano 12 mila tedeschi, ma dopo la vittoria italiana nel liceo tedesco di quaranta ragazzi ne rimase uno. Dove si pregava – e si prega – in chiese cattoliche, ortodosse e sinagoghe. Quella diversità che ha portato alle foibe. Che ha visto l’orrore della Risiera di San Sabba, unico campo di sterminio nazista in Italia. Andate nella cella della morte. Chiudetevi la porta alle spalle. E provate a sentire le urla: ebrei, slavi, italiani uccisi a bastonate.
Trieste dove la diversità ha generato dolore senza fine. Ma anche cultura, idee. Vita. La città dove trovarono casa Rainer Maria Rilke e James Joyce. La terra di Giani Stuparich, Italo Svevo. Oggi di Claudio Magris, Boris Pahor e Paolo Rumiz. Trieste dove Franco Basaglia realizzò il sogno di un mondo senza manicomi, senza muri tra matti e sani. Quella diversità che trovi oggi in piazza Garibaldi, dove nei bar senti suoni e profumi della Serbia (4.500 i serbi in città). Sul molo Audace al tramonto vedi giovani che nei lineamenti misti trasformano la storia in vita. Qui Umberto Saba scrisse: “Così ben profondate ho le radici nella mia terra”. Visitate il cimitero Sant’Anna, invita lo scrittore Mauro Covacich, leggete i nomi sulle lapidi: italiani del Nord e del Sud – Italo e Carmelo – slavi e tedeschi. Come capita anche al cronista, che torna a Trieste e nell’Istria dei nonni profughi. E dal chiarore delle strade, dal profumo dei pini verso Capo Promontore emerge qualcosa che era conservato nel sangue. Finché a Dignano – o Vodnjan, se preferite – trova una tomba con il suo nome.