Non sorprende che le critiche alla magistratura si concentrino su quella inquirente. Quando una Procura della Repubblica accusa un potente, il coro garantista dispiega un’energia proporzionale all’influenza del sullodato potente su editori e direttori di giornale.
Sorprende invece che in un Paese in drammatico declino – che si sta facendo una rassegnata ragione della galoppante mediocrità (tecnica e morale) di politici, imprenditori, banchieri e alti burocrati – i magistrati e solo i magistrati mantengano la presunzione di infallibilità. Se tutti ammettono che l’Italia è largamente corrotta, sarà lecito chiedersi quanta corruzione ci sia tra i magistrati penali, civili, contabili e amministrativi? Si obietterà che non si può sparare nel mucchio. È giusto. La corruzione si diffonde in modo molecolare, trovando la sua strada tortuosa nelle reti invisibili di singoli mascalzoni o incapaci, incistati nelle istituzioni dove lavorano fianco a fianco con una maggioranza di bravi e onesti. I quali tacciono perché, quando sanno, non hanno le prove oppure scelgono la strada della vigliaccheria o della pigrizia.
Rimane il fatto che nei palazzi di giustizia accadono ogni giorno cose inenarrabili o semplicemente discutibili senza che nessuno fiati, perché appunto si discutono solo le sentenze che condannano persone vicine a chiari interessi politici o affaristici.
Sei mesi fa, nel processo Mose, l’avvocato Corrado Crialese è stato condannato a 20 mesi per millantato credito. Il dominus del Consorzio Venezia Nuova Piergiorgio Baita riferì ai pm di avergli dato un sacco di soldi per corrompere giudici del Tar e del Consiglio di Stato. Secondo il tribunale, Crialese millantava, non corrompeva nessuno e teneva il denaro per sé. Baita ricordava una causa persa nonostante i soldi dati a Crialese ma, uomo di mondo, ipotizzava che gli altri avessero dato di più.
Due giorni fa sono stati rinviati a giudizio per ostacolo alla vigilanza l’amministratore delegato di Ubi (terza banca italiana) Victor Massiah e il presidente Andrea Moltrasio, insieme ad altre 28 persone. Gli imputati si dicono innocenti e brandiscono come prova la sentenza con cui il Tribunale civile di Brescia un anno fa ha annullato una sanzione Consob per gli stessi fatti. Ma, se si legge la sentenza, si nota un certo fumus di acrobaticità nell’argomentare che non aver comunicato al mercato le decisioni prese dopo non è una colpa perché il mercato poteva ben tenere per buone le decisioni prese e comunicate prima.
Continua intanto lo psicodramma della Roma-Latina. La gara per la costruzione della nuova autostrada è ferma da anni perché l’Anas l’ha aggiudicata al consorzio Sis che non ha indicato a quanto del contributo statale a fondo perduto avrebbe rinunciato. Ha però scritto nella sua offerta che l’avrebbe preso tutto per restituirlo con gli interessi a fine concessione, tra il 2044 e il 2056. Così gli hanno fatto vincere la gara assumendo che Sis non prendeva un solo euro di contributo. La cordata perdente ha fatto ricorso al Tar che ha dato ragione a Sis (lo stesso che, ricordava Baita, aveva battuto Crialese). Il Consiglio di Stato da sei mesi rinvia una decisione che sembrerebbe ovvia. È lecito chiedersi se la giustizia amministrativa sia sempre ben amministrata?
Ieri su Il Sole 24 Ore Stefano Elli ha raccontato che, nel processo alla “banda del 5%” di Mps, il Tribunale di Siena ha dichiarato “non utilizzabili tutti gli atti d’indagine successivi al 21 giugno 2014” (due anni di lavoro!) perché i pm (quelli del caso David Rossi, per capirci) hanno sbagliato i termini della richiesta di proroga delle indagini. Forse, oltre ai diritti degli imputati, qualcuno dovrebbe occuparsi dei diritti del popolo italiano in nome del quale…