In una rubrichetta concessagli dal Giornale con gran misericordia, e che nessuno legge se non l’iracondo autore e Google Alert, quel che resta di Sgarbi ama ricordarci quanto lui sia bravo e gli altri sterco. Alla realtà si è da tempo sostituito un ameno mondo immaginario, quasi che al polemista stanco avesse fatto seguito un “Amelie Sgarbì” con problemi di incontinenza verbale e flatulenza mentale (non solo mentale). La carriera di Sgarbi, ultimamente, sembra un inno all’insuccesso crasso. Va in tivù e le prende da tutti, poi però si bulla in giro dicendo: “Hai visto come l’ho ucciso quello lì?”. Si fa zimbellare perfino da Musumeci, e nel frattempo i siciliani lo odiano per via delle sue intemerate razzistelle.
Va in Sardegna e si incarognisce perché in aeroporto gli han fatto togliere la cintura e gli han tolto lo shampoo, che peraltro – a giudicare da quei capelli orgogliosamente unticci – non pare usare granché. Difende Mori e insulta Di Matteo, venendo sbugiardato una volta di più da giudici e storia. Sfotte gli altri per gli ascolti, dimenticandosi che quando gli han dato la prima serata su Rai Uno non lo guardarono neanche i parenti e fingendo di ignorare come da ospite affossi chiunque o quasi, da Radio Belva del suo figlioccio debole Cruciani al Telese di Bianco e nero. Più che un opinionista, pare ormai un becchino.
I programmi che ancora lo chiamano son soliti usarlo come il nonnetto che sbraita a caso e per un po’ fa ridere, poi però va riportato in ospizio con dose doppia di goccine. Politicamente coerente come una cortigiana marginale, prima ha detto di voler riportare il Rinascimento con Tremonti (ciao core) e poi si è fatto tritare da Di Maio. Tornato parlamentare grazie ai paracadute del Rosatellum, ha esordito in Aula facendosi cacciare da Giachetti per divenire quindi il berlusconiano più pleonastico della legislatura attuale. Trionfi su trionfi. Darebbe la vita – se fosse ancora vivo – per tornare a Otto e mezzo, solo che non lo chiamano e allora lui scrive piccato che la Gruber non la guarda più perché ci sono sempre (quei grillini di) Padellaro, Travaglio e il sottoscritto. Ti chiama con garbo “rottinculo, finocchio, puttana imperiale, testa di cazzo, fidanzata di Di Maio e vigliacco”, poi però ha il coraggio di querelarti lui (mentre se lo quereli tu gioca a dichiararsi nullatenente). Se lo critichi ti scrive sms di insulti alle tre di notte, tu lo blocchi e allora lui ti fa mandare da amici (o sedicenti tali) dei video in cui si vede quanta fila c’era per ascoltarlo a Firenze.
Oppure intervista i passanti per strada, e anche questa non è una battuta, per farsi dire “il più bravo sei tu”: ci tiene proprio a farti sapere che, nei suoi sogni, ce l’ha più lungo di tutti. Circondato da una perenne nonché vagamente interessata corte dei miracoli, quel che resta di Sgarbi sparge bile continua sul mondo. Pare Buffalo Bill a fine corsa, senza però esser mai stato Buffalo Bill. Intriso com’è di livore, verrebbe voglia di criticarlo. Sarebbe un errore e al contempo una mancanza di cuore: a Sgarbi occorre voler bene. Tanto bene, perché quando cala la notte c’è sempre un momento in cui Vittorio resta solo. Stanco. Ferito. È lì che si guarda allo specchio. Ed è lì che ha forse piena contezza di come, di lui, resteranno al massimo quelle immagini rumorose del Le Iene in cui sembrava quasi voler espellere se stesso al cesso. Bei momenti. Essere Sgarbi non è mai stato facile, ma ultimamente pare una condanna che nessuno merita. Neanche lui. Un abbraccio, e già che ci siamo una prece, caro Vittorio. Ti sia lieve il crepuscolo.