Ci sono verità accertate che tuttavia faticano a essere accettate. In particolare le verità che riguardano i rapporti fra mafia e politica. Palestra da sempre di un ostinato negazionismo, che ha toccato vertici parossistici col processo di Palermo contro Giulio Andreotti.
Una corrente di pensiero basata su vere e proprie bufale (oggi fake news) sostiene che l’imputato sia stato assolto, sebbene una sentenza della Corte d’Appello (confermata definitivamente in Cassazione) lo abbia dichiarato responsabile del delitto di associazione a delinquere con Cosa Nostra per averlo commesso fino alla primavera del 1980.
Assolto per aver commesso il reato non esiste in natura. È surreale, contro ogni logica.
La mia opinione è che tale pervicace negazionismo – nel caso Andreotti illogico – equivale in sostanza a legittimare la politica che abbia anche rapporti col malaffare (mafia compresa) non solo per il passato, ma anche per il presente e magari persino per il futuro. Dunque una faccenda che in controluce tocca da vicino la qualità stessa della nostra democrazia.
L’ultima performance negazionista, più che parlare di innocenza in generale, si concentra su di un fatto specifico: due incontri dell’imputato Andreotti con Stefano Bontate (capo dei capi di Cosa Nostra) di cui ha parlato Pif nella serie televisiva La mafia uccide solo d’estate in onda ogni giovedì su Rai1.
Sul Foglio del 12 maggio, Maurizio Crippa sostiene – in sintesi – che Pif “calpesta i fatti”, perché “sta scritto nelle sentenze” ed è “sigillato nella sentenza di Cassazione” che le dichiarazioni accusatorie relative ai due presunti incontri non “erano confortate da adeguati riscontri (…) Insomma, non ci furono (…) e l’Andreotti che incontrava Bontate non è mai esistito”.
Peccato per Crippa che la Cassazione abbia “sigillato” una verità ben diversa. A pagina 169 la Cassazione conferma quanto aveva già stabilito la Corte d’Appello, concludendo che Andreotti i mafiosi “li aveva incontrati; aveva interagito con essi; aveva loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire a ottenere, in definitiva, che le (sue) indicazioni venissero seguite; aveva conquistato la loro fiducia tanto da discutere insieme anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati; aveva omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza”.
Tutto ciò vien detto dopo aver premesso a pagina 156 che vi erano stati due incontri di Andreotti con Bontate “aventi a oggetto il problema rappresentato da Piersanti Mattarella”, il secondo dei quali va collocato nella primavera del 1980 (data fino alla quale è stato riconosciuto come commesso il reato ascritto all’imputato).
A questo punto, non si capisce proprio come si possa negare che i due incontri Andreotti-Bontate vi sono stati, per accusare invece chi ne parla di essere “un calunniatore, un mascariatore”. Il fatto è che proprio i due incontri con Bontate hanno assunto una rilevanza probatoria di notevole rilievo per la responsabilità penale a carico di Andreotti ravvisata fino al 1980 dalla Corte d’Appello e definitivamente “sigillata” in Cassazione. Per cui, negare questi incontri è un po’ come ribadire senza alcun fondamento – ancora una volta – che Andreotti sarebbe stato assolto.
E francamente sarebbe ora di prendere atto della verità, anche se “scomoda” perché riguarda un uomo politico potentissimo, sette volte presidente del Consiglio e un’infinità di volte ministro.
A onor del vero, qualcosa a favore della tesi di Crippa si può trovare nella sentenza di primo grado del Tribunale di Palermo che ha assolto Andreotti per insufficienza di prove. Ma questa sentenza è stata “riformata” dalla Corte d’Appello fino al 1980 e la “riforma “ è stata confermata in Cassazione, con tanto di riconoscimento della effettività dei due incontri con Bontate. Di uno dei quali – va ricordato – fu testimone “oculare” un collaboratore di giustizia storico (utilizzato anche da Giovanni Falcone): Francesco Marino Mannoia, sul quale mai nessuno ha potuto avanzare riserve di sorta in punto precisione e attendibilità. Dunque, nessun dubbio sui due incontri.