“Non ce l’avrei fatta né a fare un governo con la Lega, né ad accettare che dei cavalli di battaglia del Movimento, come restituire la dignità ai lavoratori, non fossero nel programma”. Pasquale Tridico si sfila. Il docente di Economia del lavoro a Roma Tre, indicato da Di Maio come ministro del Welfare, lo dice con voce sofferta. “Sono state notti insonni e cariche di tensione, un conflitto interiore. Io ci credevo nel fare qualcosa di utile dopo 20 anni in cui il lavoro è stato massacrato da riforme neo-liberiste. Speravo di invertire la tendenza con politiche redistributive. Invece hanno fatto un compromesso che non posso condividere. È comprensibile, ma siccome non sono un politico posso anche accettare di non starci”.
Cosa l’ha spinta a sfilarsi?
Differenze programmatiche e scelte peggiorative.
Cos’è peggiorato nel contratto rispetto a quanto fatto dal Pd sul lavoro?
Il riferimento ai voucher. Non mi piace proprio. Vediamo come verrà declinato, ma noi pensavamo che fossero da evitare. Poteva reggere la scelta di lasciare il sistema dei “Presto” con cui il governo Gentiloni li ha sostituiti, ma certo non quella di ritornare alla vecchia misura, che aveva fatto esplodere il lavoro accessorio: oltre 130 milioni di ticket venduti nel solo 2016.
Quali sono invece quelle programmatiche?
Non c’è nessuna misura per risolvere i problemi del mercato del lavoro: il Jobs act, l’abolizione dell’articolo 18, il decreto Poletti che ha liberalizzato ancora i contratti a termine… Noi eravamo per tornare indietro rispetto a queste scelte che hanno fatto aumentare ulteriormente la precarietà. Nel contratto non ce n’è traccia: solo un vago accenno a tutelare la stabilità del lavoro.
Questo dietro front che effetti ha?
Erano scelte chiave per ridare dignità al lavoro: era lo slogan del programma che avevamo pensato per riequilibrare i rapporti di forza dopo 20 anni in cui il lavoro ha perso lo scontro con il capitale.
Cos’altro manca?
Non c’è nulla sul patto per la produttività e soprattutto nulla sul Sud. Questo è molto grave. Nel programma del M5S c’era la proposta di vincolare il 34 per cento delle risorse ordinarie al Mezzogiorno e di ripristinare un ministero per il Sud.
Hanno inserito un capitolo in extremis in cui spiegano che “contrariamente al passato, si è scelto di non individuare specifiche misure con il marchio Mezzogiorno”.
Significa ignorare la “questione meridionale”, che il M5S aveva avuto il merito di riportare alla ribalta. Serve un grosso piano di investimenti e infrastrutture al Sud che produca lavoro, anche per dare credibilità al reddito di cittadinanza, altrimenti è una misura che nasce monca.
Il reddito di cittadinanza però è un punto portato a casa dai 5Stelle.
Vero, però viene scritto che è solo “per gli italiani”, mentre nella proposta di legge del M5S si parlava anche degli stranieri residenti da 2 anni in Italia. Anche il pacchetto di welfare per le famiglie è solo “per gli italiani”. Non va bene: puoi imporre il requisito di residenza, non di italianità.
Cosa pensa della flat tax?
È inaccettabile. È l’ultima cosa che si dovrebbe fare in un Paese dove sono aumentate le diseguaglianze. Al massimo serve aumentare le tasse ai redditi alti, non certo ridurle, cosa che invece fa la flat tax.
Le sue sono tutte idee per un programma vicino alle istanze di sinistra, ma il Pd renziano ha chiuso all’idea di rivedere il Jobs act.
La responsabilità di quanto sta avvenendo è del Pd: ha spinto verso questo accordo e abbandonato il tema del lavoro, che però poteva essere il punto di partenza anche per una trattativa con la destra. Così non è stato.
Cosa si augura adesso?
Di Maio ha fatto una scelta di responsabilità e spero che prenda la guida del governo. Conosco la sua sensibilità verso i temi del lavoro, della precarietà e della povertà. Penso sia sincero e spero che questi temi tornino nell’agenda di governo.