“Dobbiamo andare avanti con il modello Val d’Aosta”. Così ragionava ieri Matteo Salvini con i suoi parlamentari prima che Giuseppe Conte andasse al Quirinale a ricevere l’incarico per il governo giallo-verde. Lì la Lega si è presentata da sola, senza coalizione. È in questa battuta che c’è la chiave delle valutazioni e dei movimenti dell’altro Matteo, ovvero l’ex premier, Renzi. In un panorama proporzionale, più si rafforza l’asse Lega-Cinque Stelle (qualcuno già parla di Pup, partito unico dei populisti), più i partiti di opposizione, ovvero Forza Italia e Pd, si scompongono e si ricompongono.
Ieri lo staff di Renzi ha smentito l’ennesimo retroscena (su Il Giornale) in cui si raccontava che il suo progetto per fare un nuovo partito sarebbe ormai pronto. L’autore, Augusto Minzolini, ha confermato tutto. Ma quel che conta è che le persone più vicine a Renzi lo considerano ormai “inevitabile”.
Il piano è nel cassetto da anni. A consigliarglielo ai tempi d’oro sono stati un po’ tutti, da Denis Verdini in poi, all’epoca del patto del Nazareno. Molti treni sono passati, anche quello di fare un partito vincente alla Macron. Ma a questo punto Renzi è costretto ad accelerare. Deve essere pronto per le elezioni e prima del congresso Pd. Il segretario dimissionario pensa che il governo, anche se parte, non durerà troppo. E poi, deve poter uscire prima che entri in campo Nicola Zingaretti, considerato da quel che resta del Pd non renziano una specie di Messia. Il governatore del Lazio non ha ancora sciolto la riserva ufficialmente, ma ci sta pensando. Lui e Renzi si sono visti tre volte negli ultimi tempi. Non certo perché il Governatore cerchi un’investitura da parte del segretario uscente. Ma in un sistema proporzionale, come quello attuale, sarebbe paradossalmente più utile per entrambi “un attacco a due punte”. Con Zingaretti che copre il centrosinistra. E Renzi che eredita la parte di Forza Italia che non va con Salvini. D’altra parte il suo rapporto con Silvio Berlusconi è più forte di quello del leader leghista e si potrà consolidare nei mesi prossimi di opposizione. Pronti a passare in un nuovo partito sarebbero già in molti, a partire da Renato Brunetta e soprattutto Paolo Romani, che ha fortissimi legami con Luca Lotti e Maria Elena Boschi.
Ci sono due linee politiche opposte dentro ai dem: una che guarda alla tradizione della sinistra, l’altra che, invece, guarda all’europeismo alla Macron (gli interessi del proprio paese prima di tutto) e cerca di conquistare il voto “moderato”.
Il simbolo Renzi lo sta cercando da mesi. C’è anche chi racconta di aver visto delle prove. Il problema è che il nuovo partito lo sta anche testando: un sondaggio riservato commissionato qualche settimana fa avrebbe stimato una formazione renziana al 3%. Ma lui non si è fermato neanche di fronte a questo, convinto com’è che in questa fase sia difficile sondare qualsiasi cosa. E poi, c’è il dato caratteriale: preferisce guidare un partito del 3% che fare il secondo, il terzo, il quarto in uno del 15%.
Poi, c’è la questione soldi: il Pd ha ormai le casse vuote e i dipendenti in Cassa integrazione. Ma Renzi sta facendo una serie di viaggi all’estero: è stato in Qatar ad aprile, ieri era in Kazakistan. Poi, proseguirà i suoi impegni all’estero, a partire da un viaggio già programmato negli Stati Uniti. “Fa il lobbista e cerca fondi”, raccontano i ben informati.
Ha anche in testa la data di lancio della formazione: la prossima Leopolda, già convocata in autunno. Non è chiaro, però, chi lo seguirà. L’unica certezza sono i fedelissimi, ovvero Boschi, Lotti, e poi figure come Sandro Gozi, Dario Parrini, Alessia Morani, Tommaso Cerno. Anche dirigenti dem a lui legati, come Lorenzo Guerini e Graziano Delrio, in questa fase sembrano più vicini a Franceschini e Maurizio Martina di quanto sembra. E poi, c’è il capitolo Paolo Gentiloni e Carlo Calenda.
Ieri erano entrambi all’assemblea annuale di Confindustria, che ha tributato una standing ovation al premier uscente. I due stanno riflettendo da tempo su un partito europeista, ma l’operazione viene bloccata dalla presenza di Renzi: considerano la sua partecipazione una via sicura per il fallimento. Ecco dunque che i partiti nel Pd diventano già tre. E gli ostacoli sulla strada del sogno nel cassetto di Renzi più di uno.