Dove sono le donne? Se arrivassero gli alieni domattina e cercassero di farsi un’idea del genere umano guardando ai luoghi della rappresentazione pubblica, probabilmente penserebbero che un virus misterioso abbia colpito tutte le persone di sesso femminile d’Italia, rendendole mute o incapaci di intendere e volere.
La salita delle delegazioni politiche al Colle è stata una sfilata di maniche di camicia e completi gessati, come se metà del paese non avesse capacità di partecipazione alle decisioni pubbliche. Le lunghe sedute per l’accordo di governo hanno visto intorno al tavolo solo uomini, gli unici degni di disegnare il futuro del paese. I dibattiti televisivi e le prime pagine dei quotidiani traboccano di firme e foto maschili, perché anche i mezzi di informazione sembrano contagiati dall’assenza di biodiversità sociale. Le donne non esistono e se esistono parlano a se stesse di se stesse.
Da qualche settimana – aiutandomi con l’hashtag #tuttimaschi – ho cominciato a studiare le prime pagine dei due principali quotidiani italiani, La Repubblica e il Corriere della sera, per cercare di capire perché le donne non ci scrivono quasi mai. Le fotografo e evidenzio le firme in calce a ogni articolo per mostrare il dato macroscopico dell’onnipresenza maschile. In entrambi i quotidiani i pezzi sulle prime pagine sono quasi tutti scritti da uomini, con percentuali del 100 per cento in quelli di opinionismo politico. Altrettanto costante è la natura del contenuto. Gli uomini in prima pagina occupano gli editoriali, cioè gli spazi della massima autorevolezza: esprimono pareri sul futuro, leggono la complessità della situazione politica italiana e internazionale, fanno analisi e tengono rubriche di commento alla cronaca e al costume. Ci spiegano la realtà. Le pochissime giornaliste la cui firma viene richiamata in prima pagina fanno per lo più interviste (quasi sempre a uomini che ci spiegheranno la realtà ancora meglio) o articoli su temi riconducibili a questioni percepite come femminili, confermando l’idea che le donne siano esperte soprattutto di “donnismo”. Questo semplice lavoro di documentazione quotidiana sta causando sui social media reazioni di segno vario, da chi dice che è una battaglia giusta a chi la chiama lotta pretestuosa. Quest’ultima posizione fa ricorso sempre agli stessi argomenti e a forza di sentirli ne ho fatto una raccolta. Potrei intitolarla: “piccolo frasario del sessismo ignaro” e pressappoco contiene queste frasi.
Non è vero che ci sono poche donne. Il primo passo è la negazione dell’evidenza. Basterebbe contare, ma il fatto che l’assenza delle donne non sia percepita come un problema è la parte principale del problema.
Contano le idee e non chi le porta. Se fosse vero, dalle firme in prima dovremmo dedurre che le idee in questo Paese ce le abbiano soprattutto i maschi.
Mi rifiuto di far scrivere le donne solo in quanto donne. Ovviamente nessuna donna vuole scrivere solo in quanto donna. Quelle che hanno qualcosa di interessante da dire pensano però che quel qualcosa non valga meno di quello che ha da dire un uomo. Se nove volte su dieci a dire quella cosa viene chiamato un uomo, le possibilità sono due: o gli uomini sono più bravi a scrivere, o chi decide i loro spazi ne è convinto.
Allora anche le quote gay, le quote stranieri, le quote per tutto. C’è un errore di fondo in questo ragionamento: le donne non sono una categoria socioculturale, ma più della metà del genere umano. Il fatto che si pensi alle donne come a una variante della cosiddetta normalità è il cuore stesso del sessismo, per il quale il femminile è un’eccezione e rappresenta se stesso, mentre il maschile è la norma e rappresenta tutti.
Non ci sono nomi di donne prestigiosi come quelli degli uomini. L’assunto sarebbe vero se il prestigio fosse un dato di natura, ma nessuno nasce già autorevole. L’autorevolezza non deriva solo da quanto è interessante quello che dici, ma dalla possibilità che quello che dici possa influenzare molte persone. Il prestigio delle firme maschili si è costruito attraverso decine di occasioni di visibilità che nel tempo alle donne non sono state offerte. Continuare a invitare solo uomini a esprimere il proprio pensiero è un modo per consolidare il pregiudizio che gli unici pensieri prestigiosi siano quelli maschili.
Sapessi quanti rifiuti di donne ho ricevuto! È vero. Molti studi comportamentali dimostrano che le donne prendono così sul serio il rischio dell’incompetenza che quando non si sentono all’altezza possono rifiutare un’esposizione che invece un uomo accetterebbe con molti meno scrupoli. Se però è lui a declinare se ne cerca un altro senza troppe storie e nessuno pensa che a rifiutarsi sia un intero genere.
Le donne che si occupano di questi temi sono poche. È falso: le donne competenti che scrivono, pensano, studiano e che interverrebbero non sono meno degli uomini. Sono però molte meno nei luoghi del potere culturale, quello dove si sceglie a chi attribuire gli spazi di parola pubblica. La loro rilevanza e visibilità dipende da quanto si accorge di loro chi controlla i processi di riconoscimento e legittimazione.
Le donne sono meno competenti. Chi ha il coraggio di affermarlo sta ammettendo che esiste una discriminazione nel suo modo di giudicare il lavoro intellettuale delle donne. Solo che, anziché attribuire la colpa di questa discriminazione al suo maschilismo, la attribuisce alle donne stesse, il che è un po’ come dire: “Non sono io che sono razzista, sono loro che sono negri”.
Correre appresso alle quote rosa fa perdere un sacco di tempo. Certo che si perde tempo se prima si fa la pagina e dopo ci si chiede “quante donne ho messo?”. Significa che le firme femminili eventualmente inserite non rispondono a un bisogno di rappresentazione del pensiero, ma solo di rappresentazione di sé in quanto donne. Questa idea le renderà un fastidioso pedaggio da pagare al politicamente corretto. Progettare un giornale in questo modo è faticoso di sicuro, ma la colpa non è nell’esistenza delle donne: è nell’esistenza del maschilismo. Se è complicato per un direttore costringersi a ricordare che le persone di sesso femminile esistono e fanno pensiero, lo è ben di più per le donne, costrette a combattere ogni giorno contro i tentativi di essere cancellate dagli spazi dove quel pensiero può essere espresso.
Ma se abbiamo anche un vicedirettore donna! Questa è la scusa più maschilista di tutte. Si spera infatti che la vicedirettrice sia diventata tale per i suoi meriti e non per una concessione fatta al suo essere donna. Nello svolgere il suo lavoro rappresenta quindi sé stessa, non il suo genere. L’esistenza di vicedirettrici o caporedattrici dimostra solo che quelle donne erano capaci, non che chi le ha nominate non sia sessista, soprattutto se poi usa la loro presenza per giustificare l’assenza di tutte le altre.
Non si può cambiare la realtà da un giorno all’altro, ma nessuna realtà comincerà mai a cambiare se la necessità del cambiamento non diventa evidente a tutti. Per questo la campagna #tuttimaschi andrà avanti per un anno: finché le donne non potranno esserci per contare, è essenziale che continuino a contare per esserci.
di Michela Murgia