Nelle lunghe settimane di crisi abbiamo visto uno psicodramma politico trasformarsi in una crisi istituzionale i cui strascichi non saranno inoffensivi. La Presidenza della Repubblica è la più importante istituzione di garanzia del nostro ordinamento e va difesa senza tentennamenti. Va difesa non solo da attacchi strumentali, ma anche da una gestione maldestra da parte dello stesso presidente della Repubblica, il regista di questa fase complessa, che non si può mettere sullo stesso piano di attori politici spesso non all’altezza del ruolo.
La posizione a tutela del presidente della Repubblica non esclude una critica a Sergio Mattarella: a uscire indebolite da questo lungo e confuso passaggio sono le istituzioni, grazie a ripetute violazioni delle prassi e delle regole. A volte con sgrammaticature che hanno prestato il fianco a critiche, come nel caso del contratto di governo (meglio sarebbe stato chiamarlo accordo o programma, evitando i giusti rilievi sull’impossibilità di imporre vincoli privatistici a un patto tra partiti); a volte con incomprensibili sgarbi istituzionali, com’è capitato quando Matteo Salvini e Luigi Di Maio hanno fatto il nome del professor Giuseppe Conte, prima che fosse convocato al Colle.
Domenica sera, poi, abbiamo ascoltato il discorso di Sergio Mattarella, che per la prima volta ha portato fuori dalla porta dello Studio alla Vetrata il dialogo tra un capo dello Stato e un presidente incaricato, svelando l’indisponibilità ad accettare il nome del professor Paolo Savona a causa delle sue opinioni sulle condizioni di permanenza dell’Italia nell’Eurozona. Il professor Francesco Pallante ha fatto notare su queste pagine come per la prima volta non è il bambino a dire che il re è nudo, ma lo stesso re: un disvelamento che crea un precedente.
Dal naufragio – si sarebbe poi scoperto, solo temporaneo – del governo pentaleghista è stato un susseguirsi di errori a catena. Luigi Di Maio per tre giorni ha minacciato la messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica, procedura lunghissima, impossibile in questo stadio della vita della legislatura (mentre mancano i giudici aggregati e le giunte per le autorizzazioni a procedere) e sproporzionata rispetto a fatti che non si configurano come reato presidenziale. La mossa successiva di Sergio Mattarella – il suo piano B – è stata convocare Carlo Cottarelli per incaricarlo di formare il cosiddetto governo neutro.
A parte il fatto che non esiste un governo neutro, la scelta è stata impropria anche perché il professor Cottarelli incarna una visione della politica fiscale diametralmente opposta a quella indicata dal governo pentaleghista. Senza dire che i governi tecnici, ne abbiamo diretta e recente esperienza, si sa quando nascono e mai quando lasciano. Il vulnus istituzionale risiede nell’ipotizzare un esecutivo tecnico senza il sostegno parlamentare di nessun partito in presenza di una maggioranza politica disponibile a formare un esecutivo: qualcosa più che una contraddizione.
Ieri mattina ci siamo svegliati con tre governi: quello politico, ridestato come la Bella addormentata dopo nuovi colloqui del presidente con i leader politici; quello tecnico, dormiente in attesa di uno scioglimento delle trattative tra partiti e Quirinale; quello in carica per gli affari correnti, con già un piede fuori dalla porta. Una “coabitazione” mai vista, così ingarbugliata da diventare una pericolosa anomalia in cui paiono saltati tutti i contrappesi. Al quadro mancava solo la proposta leghista di cambiare la forma di governo in senso presidenziale, come reazione alla regia della crisi e al caos. Vale la pena ricordare l’etimo greco della parola: caos vuol dire vuoto e le conseguenze di un vuoto istituzionale sono imprevedibili quanto preoccupanti.