Non si possono trasformare le elezioni amministrative, anche se riguardavano 6 milioni di elettori, in un test nazionale sul governo giallo-verde. Perché il governo Conte è appena nato. Perché l’alleanza “Frankenstein” 5Stelle-Lega che lo sostiene non si è riprodotta in nessuna delle città al voto. E perché a livello locale, salvo quando imbroccano la congiunzione astrale fra un disastro di giunte precedenti e un candidato popolare e spendibile (Raggi a Roma, Appendino a Torino, Nogarin a Livorno), i pentastellati nelle città soffrono sempre, complice la pletora di liste civetta con dentro tutti e il contrario di tutti che fa massa con i vecchi partiti. Però anche le Comunali di domenica segnalano lo stato di salute delle forze politiche. E quello dei 5Stelle è pessimo. Perdono terreno quasi dappertutto sulle Politiche del 4 marzo e anche sulle precedenti Comunali. Nei capoluoghi, conquistano il ballottaggio solo a Terni, Avellino e Ragusa. E in grandi centri come Imola, Pomezia e Acireale. Invece spariscono nei due municipi romani tornati alle urne, che riscoprono il vecchio bipolarismo sinistra-destra e ammainano la bandiera della Raggi, punita (soprattutto dalle astensioni) per la prima volta dopo due anni. A Siena e a Vicenza, a causa delle solite beghe di pollaio nei (o fra i) Meetup, perdono la partita senza neppure averla giocata: per abbandono.
Nascondere la testa nella sabbia come gli struzzi e fingere che non sia successo nulla, o millantare vittorie inesistenti, sarebbe ridicolo. Anche perché già alle Amministrative del 2017 i 5Stelle erano andati malissimo, in controtendenza col trionfo del 4 marzo 2018. Che però rischia di diventare come quello di Renzi alle Europee del 2014: un fatto unico e irripetibile. È il momento per i “grillini” di mettersi attorno a un tavolo e far ripartire il Movimento dal basso con una gestione collegiale, ben distinta dagli impegni di governo. Ma anche di mettersi davanti a uno specchio per confrontarsi con ciò che erano 9 anni fa quando nacquero, 5 anni fa quando irruppero in Parlamento, 2 anni fa quando espugnarono grandi città. Sono maturati, certo: soltanto un anno fa, alla parola “alleanze”, mettevano mano alla fondina e, a ogni parola di Grillo, scattavano sull’attenti. Oggi sono al governo, alleati di un partito rivale e diversissimo (la Lega) e con un premier indicato da loro. Le parole di Grillo sono “opinioni personali”, almeno quando non investono le regole interne. Davide Casaleggio, checché se ne dica, è molto più distante di Gianroberto.
C’è un capo politico con pieni poteri, Di Maio, che cumula pure i ruoli di vicepremier e ministro del Lavoro, dello Sviluppo e (si spera ancora per molto) delle Tlc. Altri esponenti del Movimento, o tecnici di area, occupano cariche decisive: dalla presidenza della Camera (Fico) a ministeri come la Giustizia (Bonafede), la Difesa (Trenta), i Rapporti col Parlamento (Fraccaro), le Infrastrutture e Trasporti (Toninelli), l’Ambiente (Costa), i Beni culturali e Turismo (Bonisoli), la Salute (Giulia Grillo), oltre ad aver indicato agli Esteri l’indipendente Moavero. Sulla carta, a parte gli Interni finiti a Salvini e l’Economia all’indipendente Tria indicato dalla Lega, sono tutti i ministeri più importanti. Quelli che, se funzionassero nel verso giusto, potrebbero cambiare un bel po’ di cose nel senso da sempre auspicato dal M5S. Basterebbe realizzare il contratto di governo nelle sue parti positive, che in gran parte coincidono con riforme a costo zero e a vantaggio mille.
Ma proprio qui casca l’asino: l’alleanza con la Lega, neppure immaginata in campagna elettorale né dopo le elezioni quando si sperava in un’intesa col Pd, rischia di spegnere le stelle più brillanti del Movimento. Salvini, sebbene più distante da certe lobby del Pd e di FI, è un mezzo Gattopardo che usa elementi di novità, soprattutto mediatici, per mascherare il riciclaggio di vecchie pratiche e vecchie pantegane (l’alleato-oppositore B., ma non solo). Se ne accorgeranno Di Maio, Toninelli, Bonafede, la Grillo, Fico e Fraccaro se proveranno a toccare i tabù del conflitto d’interessi, delle grandi opere, della prescrizione, della corruzione, dell’evasione, dei potentati sanitario-farmaceutici, dei vitalizi e degli altri privilegi di casta. Il che spiega l’estrema prudenza con cui si muovono i ministri 5Stelle, ben lontani dalla spavalda bullaggine dell’alleato-concorrente Salvini. Questi sa benissimo di poterli sfidare ogni giorno senza rischiare di rompere l’alleanza, perché la caduta del governo danneggerebbe soltanto i grillini, costretti a giocare su un solo tavolo, mentre lui ne ha sempre un secondo di riserva: le elezioni anticipate che lo porterebbero non più al Viminale, ma a Palazzo Chigi.
Gli elettori leghisti non vanno per il sottile e digeriscono tutto, anche un eventuale ribaltone dai 5Stelle a B.: il capo ha sempre ragione. Gli elettori M5S sono più esigenti: abituati a discutere (anche troppo) su tutto, non hanno un capo assoluto, vogliono contare e mal tollerano le incoerenze. Finora molti di loro han digerito il contratto con la Lega solo perché l’Aventino del Pd l’ha reso inevitabile. Ma altri – quelli di sinistra – se ne sono andati o sono rimasti a casa. E chi si fida non dà deleghe in bianco. Perciò Di Maio&C. devono tenersi pronti a ogni evenienza: accelerando sui loro punti programmatici come fa Salvini sui suoi; e preparandosi a rompere se si rendessero conto che Salvini li usa per farsi qualche altro mese di campagna elettorale. Prima che sia troppo tardi. È vero, come dice Confucio, che non importa il colore del gatto, purché prenda i topi. Ma poi qualche topo bisogna acchiapparlo. Altrimenti è meglio cercarsi un altro gatto.