E se il calcio italiano, oggi grande assente ai Mondiali la vetrina più importante del football globale, non fosse altro che una straordinaria metafora del sistema Paese? Una sorta di specchio fedele dei vizi e delle virtù dell’italica patria? In fondo è lo sport più popolare per antonomasia, catalizza passioni se non fedi calcistiche. Ma è nei suoi risultati economico-finanziari, nei suoi conti, che le similitudini con le gioie e le disgrazie della Repubblica si fanno calzanti. Ricco e sfavillante nei suoi ingaggi e nelle sue finanze private, gracile nei suoi conti pubblici.
Che il calcio sia affare ricco per i suoi protagonisti che scendono in campo ogni domenica è indubbio. Così come è un fatto che i conti privati delle famiglie italiane brillino di ricchezza, sicuramente in parte nascosta e mal distribuita, ma presente. La ricchezza finanziaria delle famiglie italiane veleggia da anni attorno ai 4mila miliardi. Il doppio del debito pubblico italiano. Soldi investiti in conti correnti, Btp, azioni, fondi comuni, polizze. Ricchezza cumulata dalle generazioni e tenuta lì come un tesoretto capitalizzato per l’avvenire. Con nonni e capifamiglia che con quel tesoretto sostengono la generazione dei millennials, precaria nel lavoro e precaria nell’esistenza.
Come non pensare agli stipendi dei calciatori. Stipendi dorati che insieme ai costi vari finiscono per valere tutto il monte ricavi del calcio professionistico italiano. L’ultimo rapporto Pwc Arel sul pianeta calcio ci dice proprio questo. Nell’ultima stagione 2016-2017 il calcio professionistico italiano (Serie A, B, Lega Pro) ha avuto un giro d’affari di 3,2 miliardi di euro, tutti mangiati dai costi che si sono attestati a 3,35 miliardi. Se fosse un’industria come un’altra peccherebbe e molto in efficienza. Da anni il calcio nel suo insieme produce solo perdite. I costi finiscono puntualmente per superare i ricavi, complice il forte peso degli stipendi dei calciatori. Negli ultimi 5 anni il calcio professionistico ha cumulato perdite per quasi 1,7 miliardi. Con perdite attestatesi mediamente a un valore medio annuo che pesa per il 10% dei ricavi. Ogni 100 euro prodotte il calcio ne brucia 10. Un’industria che produce costantemente deficit. Un po’ come la Repubblica che finisce ogni anno in perdita per quei 70 miliardi che costa la spesa per interessi sul debito. Già il debito. È proprio qui che la similitudine con i conti pubblici italiani si fa calzante. I debiti del calcio superano costantemente i ricavi. Un po’ come quel rapporto debito/Pil che affanna da sempre l’Italia. L’anno scorso i debiti cumulati del calcio sono saliti a quota 4 miliardi. Valgono il 120% dei totale dei ricavi aggregati. Pesano sul conto economico per la spesa sugli interessi come accade per i conti pubblici italiani. Anche qui la similitudine è imbarazzante. I conti pubblici italiani da anni chiudono con un avanzo primario (rapporto tra entrate e uscite) positivo, ma vanno in rosso per la spesa per interessi che vale 70 miliardi. Ebbene per il calcio funziona uguale. Tra entrate e uscite ordinarie il saldo è stato positivo nell’ultima stagione per 39 milioni di euro. Ma poi vanno sottratti gli interessi sul debito costati ben 95 milioni di euro e voilà il risultato di bilancio finisce in deficit. Quel debito è come un’ipoteca sul futuro. Vale per la Repubblica, vale per il calcio.
Altra costante è il livello di sottocapitalizzazione della pelota italica. Un po’ come il livello di scarsa patrimonializzazione che connota il sistema industriale italiano. Ebbene a fronte di 4 miliardi di debiti totali, il capitale che li sostiene è solo di 358 milioni. Meno del 10%. Con un livello di rapporto debito equity che assomiglia alla struttura patrimoniale di molte pmi italiane, dove l’imprenditore mette capitale di rischio per 10 e si indebita per 90. Tra l’altro c’è stato nell’ultima stagione un forte miglioramento della struttura finanziaria. Ci sono stati anni passati in cui il capitale delle società calcistiche pesava tra il 2 e il 5% del passivo. Capitalismo calcistico senza capitali verrebbe da dire. Un vizietto mutuato evidentemente dalla struttura finanziaria di molte imprese che vanno a leva finanziaria in modo dissennato attingendo a piene mani al debito bancario. Il calcio italiano sotto il profilo finanziario non ci fa una bella figura. Debiti che valgono il 120% del giro d’affari. Capitale tenuto ai minimi termini e costi totali che finiscono per mangiarsi tutti i ricavi producendo ogni anno che passa solo perdite.
Il confronto con altri paesi è impietoso. Mentre la nostra serie A chiude in perdita costante da anni, le serie maggiori tedesche e spagnole grondano profitti ogni stagione (ad esempio la Serie A inglese ha chiuso con un miliardo di sterline di utili). Non solo ma a livello di struttura patrimoniale il calcio degli altri Stati non ha il livello di sotto-patrimonializzazione che connota l’Italia. Mentre come abbiamo visto il calcio italico vanta capitale su debiti che non va oltre (quando va bene) il 10%, il calcio degli altri non lesina risorse proprie. Il calcio tedesco ha capitale che vale il 40% del passivo. In Spagna le società hanno patrimonio al 25% delle passività e in Inghilterra il patrimonio dei club vale il 36% del bilancio. Anni luce lontani dal mesto calcio italico scoppiettante quanto a immagine e campioni, gracile quanto a debiti, perdite à go-go e capitali che mancano costantemente all’appello.