C’era una volta il Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa del 2015. Fin dall’inizio la sua attuazione ha incontrato difficoltà e ostacoli, come è inevitabile quando si vuole riformare una struttura molto complessa. Nelle intenzioni doveva essere un’iniziativa dell’intero governo, ma poi, a partire dal presidente del Consiglio di allora, Matteo Renzi, la Difesa con il ministro Roberta Pinotti è stata lasciata sola. C’è voluto un anno e mezzo per definire e approvare la proposta di legge per attuarlo: nessuna meraviglia che si sia poi arenata in Parlamento.
Fra le tante novità ,una non aveva sollevato obiezioni, quella di passare da una pianificazione finanziaria annuale ad una sessennale: “Essendo la stabilità delle risorse assegnate nel tempo un fattore essenziale per assicurare la corretta pianificazione d’utilizzo delle stesse, appare ineludibile la scelta di sviluppare una legge pluriennale (sei anni), da aggiornare ogni tre, per i maggiori investimenti della Difesa”.
L’obiettivo, da tutti condiviso, era quello di dare certezza sulle risorse disponibili per poter meglio pianificare l’ammodernamento degli equipaggiamenti da parte delle Forze Armate e gli investimenti in ricerca e sviluppo e le strategie da parte dell’industria. Ma lo scopo era anche offrire al Parlamento il quadro complessivo dei programmi di sviluppo e acquisizione, sulla cui base esercitare la sua funzione di indirizzo e di controllo. L’attuale coinvolgimento del Parlamento avviene, infatti, attraverso il parere consultivo su ogni singolo programma presentato dalla Difesa. Finisce così con l’essere un esercizio formale e inutile perché manca il quadro complessivo e quindi ogni possibilità di approfondimento.
È un chiaro esempio di questo problema la discussione iniziata nel lungo vuoto post-elettorale nella commissione speciale del Parlamento sul programma del velivolo a pilotaggio remoto P.2HH della Piaggio Aerospace. Si tratta di una scelta strategica per il nostro Paese, anche per la sua rilevanza finanziaria: costerà più di un miliardo di euro.
Ma se rappresenta un’esigenza così pressante per le Forze Armate, come mai il programma è rimasto nascosto nei cassetti e ne è uscito solo dopo lo scioglimento del Parlamento, dando la netta impressione che si sia tentato un colpo di mano?
Non è chiaro come la Difesa pensi di farlo convivere con il programma per il velivolo a pilotaggio remoto EuroMALE (Medium altitude long endurance) che l’Italia sta definendo e finanziando insieme a Germania, Francia e Spagna e la cui fase di sviluppo dovrebbe partire all’inizio del prossimo anno, avvalendosi delle risorse messe a disposizione dall’Ue nel quadro del Programma per lo sviluppo dell’industria europea della difesa. Nessuno ha spiegato quali potrebbero essere le conseguenze per la nostra partecipazione, visto che col nostro programma nazionale, ne diventeremo concorrenti.
Come si concilia l’ennesima scelta di un programma nazionale (dopo il veicolo ruotato armato B2, l’addestratore M 345, l’elicottero da combattimento EES) con la strategia di collaborazione europea che è alla base del Libro Bianco? Come possiamo sostenere da soli tutti questi programmi quando anche i Paesi europei più grandi cercano di farli in collaborazione con altri? È stato considerato il rischio che la Commissione contesti il mancato rispetto della normativa europea sugli acquisti di prodotti militari? Mistero.
E chissà quali saranno le prospettive di mercato del velivolo P.2HH, tenendo conto del suo costo e della presenza radicata di concorrenti americani e israeliani e dell’arrivo di molti altri: non ci sarà spazio per tutti sul mercato europeo. Vanno anche considerate le limitazioni imposte dal trattato Mtcr (Regime di non proliferazione nel settore missilistico) a cui è associata questa tipologia di sistemi.
C’è poi un livello di rischio tecnologico insito in questo programma, visto che i velivoli a pilotaggio remoto di questa classe sono considerati oggi una delle grandi sfide dei prossimi decenni e, proprio per questo, i Paesi europei più sviluppati si sono uniti nel programma EuroMALE. Quali garanzie può offrire la Piaggio Aerospace, un’azienda che da anni vive una profonda crisi commerciale e finanziaria e che ha accumulato un ritardo di più di tre anni sul più piccolo e semplice velivolo P.1HH?
La verità è che questa scelta è stata condizionata da ragioni sociali, circa 800 dipendenti dell’azienda ligure, e di politica internazionale, cioè il mantenimento del rapporto di collaborazione con gli Emirati, già incrinato dal disastro di Alitalia e dalla resa di Ethiad: nel 2006 il controllo di Piaggio Aerospace è passato al fondo emiratino Mubadala che nel 2013 ha immesso nell’azienda altri 250 milioni di euro con un aumento di capitale. Ma senza commesse (pubbliche e italiane) quell’investimento in Piaggio Aerospace non si giusticherà mai. E nessun governo italiano vuole incrinare i rapporti con la ricchissima Abu Dhabi.
Ma se queste sono le vere motivazioni e preoccupazioni politiche, perché non cercare soluzioni diverse che non siano destinate a sacrificare le forze armate e l’industria aerospaziale italiana? Perché finanziare l’ennesima operazione di salvataggio industriale senza alcuna seria prospettiva, ma con la certezza di farci perdere il treno europeo?