Con il rispetto che si deve ai moribondi, ci accosteremo in queste righe al capezzale del Pd. Impegnato, al proprio interno e non solo, in un avvincente dibattito ombelicale sul proprio futuro: con un po’ di senso dell’umorismo, potremmo sintetizzarlo nell’interrogativo di leniniana memoria “Che fare?”. Detto che noi concordiamo pienamente con il professor Canfora (che un paio di giorni fa sul Fatto invocava in proposito “la chirurgia demolitoria”) si fa un gran parlare di andare “oltre il Pd”, “oltre la forma partito”, verso un “fronte repubblicano”, ragion per cui serve una “fase costituente” (una fissa, quest’ultima, di Carlo Calenda, il Manchurian candidate del Pd, che voleva anche una legislatura costituente in Parlamento). A nessuno sembra venire in mente che più del nome, più della forma, è questione di sostanza politica. Ha scritto bene Fabrizio d’Esposito: “L’oltrismo ha segnato tutto il percorso della sinistra dal 1989 a oggi (l’Ulivo, l’Unione, il Pd)”. È ormai più che altro un riflesso pavloviano, o forse l’ultimo spasmo vitale prima della fine. Ma è ciò che accade nell’agonia a farci mettere vieppiù le mani nei capelli.
Mercoledì a Montecitorio durante il question time – lo spazio in cui i parlamentari chiedono chiarimenti agli esponenti dell’esecutivo – il ministro dell’Interno ha fatto notare che erano presenti quasi solo deputati dei partiti di maggioranza: “È un curioso question time. Penso soprattutto ai banchi del Partito democratico… Ma saremo più fortunati più avanti”. Così un parlamentare della Lega ha chiesto a Salvini quali fossero gli impegni del governo in tema di lotta alle mafie e lui ha potuto cavarsela con una serie di buone intenzioni. Domanda: cari deputati del Pd, esattamente che lavoro fate? Non dovevate fare “un’opposizione radicale, seria, determinata, senza sconti” (sintesi di varie dichiarazioni dei dirigenti Pd all’indomani della nascita del governo pentaleghista)?
Un ruolo importantissimo, fondamentale nella dialettica di una democrazia parlamentare. Ma pare che i banchi di Montecitorio non siano abbastanza comodi o glamour. E manco quelli di Palazzo Madama. È notizia di questa settimana che Matteo Renzi, rottamatore di se stesso e della sinistra tutta, ha un piano B (no, non sta per Berlusconi). Sta lavorando a un progetto televisivo con Lucio Presta (dimmi chi sono i tuoi amici), una trasmissione di taglio culturale (sic) su Firenze con Renzi in video. Tralasciamo l’ironia sulle ambizioni dell’ex premier: il punto vero è che il piano A, cioè essere “senatore semplice”, evidentemente non è ritenuto sufficientemente prestigioso. Eppure è un lavoro importante, oltreché assai ben remunerato. Non è ben chiaro perché Renzi si sia presentato alle elezioni, visto che vuole fare il conferenziere alla Blair/Clinton (sic) o il divulgatore, I wanna be Alberto Angela (o più probabilmente, Tomaso Montanari).
“Con questi dirigenti non vinceremo mai”, diceva Nanni Moretti (ora iscritto al meno conflittuale “partito di Fellini”) al tempo dei girotondi. Correva l’anno 2002, ere geologiche fa, il regista ce l’aveva con Rutelli e Fassino, oggi ridotto a una Cassandra comica che sforna auto profezie. Ci convince di più la sintesi di Massimo Cacciari, qualche giorno fa sul nostro giornale: “Questi fanno le comiche, sono da prendere a sculacciate. Anzi, a calci nel culo visto che non sono più bambini”.