“In ginocchio ve lo prego, un piccolo frammento, perché io dirò quello che è successo perché io lo so”.
Angela Donato implora i killer del figlio di restituirgli qualcosa su cui possa piangere e pregare.
Cose Nostre. 28 giugno. Raiuno
Chi frequenta le redazioni dei giornali conosce gli sbuffi di malcelata sopportazione che, in genere, accompagnano le proposte sulle inchieste di mafia. È una materia che, purtroppo, viene considerata datata come se ogni articolo fosse la ripetizione, uffa, di altri già scritti e già letti in epoche lontane.
Una specie di litania impastata di devozione (qualche volta neppure autentica) verso chi ha versato il sangue per lo Stato: uomini delle istituzioni, magistrati, poliziotti, giornalisti. Però non è bello dire che è acqua passata e allora chi dirige un giornale può rifugiarsi in un biascicato ‘non c’è spazio vediamo domani’. Che equivale al pollice verso. Né può servire l’obiezione che, per dire, anche il campionato di calcio ripropone sempre la stessa minestra, eppure nessuno si sognerebbe di dire: che noia è tutta roba che abbiamo già visto. La scontata contro obiezione è che il calcio conserva un seguito imponente mentre i lettori alla parola mafia voltano pagina. O cambiano canale. Almeno così si dice. Non certo al “Fatto Quotidiano” che non ha mai interrotto il discorso pubblico sulle cose di Cosa nostra. Battendo per anni in totale solitudine sul tema della trattativa Stato-mafia, finché una sentenza ci ha dato ragione.
Anche a Raiuno si è voluto, lodevolmente, scommettere sul programma “difficile”. Infatti giovedì scorso accade che “Cose Nostre”, il programma di Emilia Brandi con la regia di Matteo Lena giunto alla terza stagione, registri un ascolto del nove per cento (quasi un milione di persone) che nella fascia notturna (siamo tra la mezzanotte e l’una) significa molto.
Tutta gente che soffre d’insonnia? Oppure ha vinto la vicenda di Angela Donato, la mater dolorosa calabrese che come un samurai implacabile ha dedicato l’esistenza a ritrovare le spoglie del figliolo Santo. Vittima della lupara bianca a 29 anni per aver osato diventare l’amante della donna del boss. Se, purtroppo, la guerra dello Stato contro le mafie non è ancora vinta (e probabilmente per molto tempo ancora) si può dire che Cosa nostra, camorra, ‘ndrangheta e Mafia Capitale da tempo hanno stravinto la guerra delle fiction. Da “Gomorra”, a “Suburra”, a “Romanzo Criminale”, alle tante produzioni che campano di padrini sanguinari e famiglie maledette è un genere di straordinario successo che tuttavia di anno in anno, di serie in serie attinge con crescente difficoltà ai giacimenti dell’immaginazione, costretta a progressivi virtuosismi narrativi.
E se invece il pubblico tornasse a gradire il racconto rigoroso e affascinante della realtà? Sulla strada tracciata dal maestro del realismo televisivo Sergio Zavoli e lungo la quale programmi come “Cose Nostre” vogliono camminare.