L’uscita del gruppo siderurgico Marcegaglia dalla Confindustria andrà custodita dall’Unesco e dalla memoria nazionale come monumento della crisi italiana, dominata dal disfacimento culturale ed etico della classe dirigente. Lo strappo in casa degli industriali avviene mentre il governo giallo-verde affronta il problema del lavoro con un balbettio propagandistico chiamato “decreto Dignità” che, al di là delle condivisibili intenzioni, non servirà a niente. Non creerà nuova disoccupazione, come strombazzano gli industriali e i loro amici politici. Però gli uomini nuovi – epigoni di una politica analfabeta che vorrebbe governare a colpi di slogan e tweet – come molti predecessori non praticano la disciplina mentale che fa convertire i buoni propositi in un testo normativo efficace. Ci ha pensato un loro simpatizzante tecnicamente evoluto come Giulio Tremonti a metterli in guardia con paterna ironia sui pericoli di una norma scritta come un post di Facebook: “Che cos’è un investimento produttivo? Che cos’è l’attività economica interessata ovvero l’attività analoga? Che cos’è la conclusione dell’attività agevolata? È il collaudo del macchinario, la messa in funzione, il taglio del nastro, o il rinfresco per i festeggiamenti?”.
Mentre il Paese affronta così il dramma dei milioni di posti di lavoro che mancano e la frenata dell’economia getta luci fosche sull’autunno, il Gruppo Marcegaglia esce dalla Confindustria. Il punto non è l’ingratitudine di Antonio Marcegaglia, che dieci anni fa patteggiò una pena per corruzione (tangenti a un dirigente Eni in cambio di appalti) ma non fu cacciato dalla Confindustria perché la presidente (sua sorella Emma) era sollecitata dall’amico Antonello Montante a espellere chi pagava il pizzo alla mafia e non chi allungava le stecche all’Eni. Non conta che il Gruppo Marcegaglia sia anche di Emma, oggi presidente dell’Eni, una delle maggiori associate di Confindustria. E neppure che se ne va la ex presidente e attuale presidente della Luiss, l’università della casa.
Il punto è proprio nei motivi dell’uscita. Sostiene l’azienda di Mantova che nella discussione sui dazi l’associazione di categoria Federacciai (quella che viene tecnicamente abbandonata) si è schierata dalla parte dei produttori di acciaio contro i trasformatori come Marcegaglia, provocandogli “particolare amarezza e un profondo senso di isolamento”. Ogni amarezza ha la sua dignità, penserà magnanimo il padre di famiglia in cerca di lavoro che da anni sente lo stesso senso di isolamento ogni volta che gli dicono no. Ma restiamo al fatto che i siderurgici sono divisi, talmente divisi da divorziare, manco fossero il Pd. Del resto l’esempio lo dette Sergio Marchionne il 3 ottobre 2011 annunciando l’uscita della Fiat dalla Confindustria perché l’accordo sindacale del 21 settembre smentiva quello del 28 giugno, e quindi rischiava di “limitare fortemente la flessibilità gestionale”. La presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia amabilmente gli rispose: “Motivazioni che non stanno in piedi”. Marchionne, cocciuto, se ne andò lo stesso.
La morale della storia è spietata. Questi industriali pieni di sé e del ruolo autoassegnato di salvatori della Patria, mostrano di non avere la minima idea di che cosa sia l’interesse generale con cui amano sciacquarsi la bocca. Fronteggiano le difficoltà presenti pensando solo a se stessi, qualcuno cercando la soluzione pagando tangenti, qualcun altro impegnandosi in liti da ballatoio per piegare ai propri interessi la forza lobbistica della Confindustria. Talmente accecati dal loro infantile egoismo da non accorgersi che quella forza non esiste più.