Sabato mattina, in auto direzione Argentario provo ad ascoltare la radio ma le frequenze saltano tra scariche e fruscii. Poi, improvvisamente, una voce inconfondibile, arrogante, bullesca irrompe da Radio Radicale (la sola, con Radio Maria, udibile perfino nelle caverne thailandesi). Si, è proprio lui Matteo Renzi che all’assemblea del Pd interviene con la grazia di un lottatore di sumo incazzato. È nella sua forma abituale. Insopportabile. Non esprime concetti, li mitraglia. Non critica, latra. Non polemizza, sbrana. Come sempre è pericolosamente contagioso.
Mi sorprendo a imprecare da solo. Brutto bischero, hai perso tutto quello che c’era da perdere, hai ammazzato un partito, devastato una storia, ma sei sempre lì che dai lezioni a tutti, bla bla bla. Ma perché ti fanno ancora parlare? (e aggiungo altro che mi vergogno a riferire). Davvero un brutto alterco ma porca miseria finalmente c’è vita sull’autostrada Roma-Civitavecchia, uno squarcio nella noia accaldata dei limiti di velocità, una botta di rabbia e si va su di giri. La parola passa a Maurizio Martina che mi predispongo ad ascoltare con la stessa compunta devozione di un peccatore dopo una notte brava con Nina Moric. Infatti, il tono torna misurato, civile. Poi sempre più quieto, pacato, disteso, distensivo, rilassato, lento, lentissimo, monocorde, ronf ronf. Mentre le palpebre pericolosamente calano percepisco lo sforzo generoso e addolorato del segretario reggente che sicuramente esprime concetti di grande buon senso anche se non capisco quali. Mi perdo in un groviglio lamentoso di “analisi”, “percorsi”, “paesi reali”, “corpi vivi”, “ricerche”, “pluralità” e “sfide”, “sfide” e ancora “sfide” che imbambolato confondo con la doppia sfida bianca al centro dell’asfalto. Che in realtà è la doppia striscia oltre la quale mi sta arrivando addosso un tir.
In fondo, sabato mattina anch’io ho vissuto il dilemma che sta frantumando il Pd. Continuare a subire la prepotenza pubblica (e privata) di un leader disarcionato, e che malgrado tutto continua ad agitarsi nella polvere imprecando frasi sconnesse. Il primo responsabile dello smembramento di quello che un tempo fu un grande partito. Eppure ancora oggi forse il solo capace, con l’arma della paura, di tenere insieme ciò che resta di quel popolo smarrito. Gridando la propria ossessione contro i Cinque Stelle perché usurpatori colpevoli di ciò che il Pd ha smesso di essere. Nella solitudine, nella vendetta, nella rabbia, nell’assenza stessa della politica. Oppure affidarsi a un ceto politico di survivor.
Prese individualmente – Zingaretti, Delrio, Calenda, Orlando – tutte persone rispettabili e con solide esperienze di vertice. Come collettivo una squadra scombiccherata e indecisa a tutto. Che nella sarabanda di fronti repubblicani, fasi costituenti e comitati per l’alternativa non sa più come farsi capire. Un gruppo dirigente che non dirige più e incapace di applicarsi alla grammatica dell’opposizione. Che sul tema decisivo dell’immigrazione sceglie di non scegliere: paralizzato tra il richiamo ai tradizionali valori dell’accoglienza e il timore per la canea montante. Che si fa tranquillamente insultare da un signore che nessuno ha il coraggio di prendere per il bavero dicendogli ciò che merita (l’“imbarazzante” di un maltrattato Paolo Gentiloni resta la reazione più sanguigna). Immaginare cosa sarà la campagna congressuale nei prossimi mesi è roba da brividi. Prudente non farlo mentre state guidando.