Tanto per ricordarci chi ci ha governati fino al 4 marzo, Luciano Violante replica su Repubblica ai severissimi giudizi della Corte d’assise di Palermo, nella sentenza Trattativa, sui suoi 16 anni di silenzio a proposito del generale Mario Mori, che nell’estate ’92 gli propose un tête-à-tête con Vito Ciancimino (con cui stava trattando) che lui, presidente dell’Antimafia, rifiutò, ma poi si scordò di avvertirne la magistratura. Anche dopo il ’97, quando Mori, “costretto“ dalle rivelazioni di Giovanni Brusca, confessò la trattativa al processo per le stragi del ’93. Testuale: “All’epoca avevo cose più importanti che sentire Brusca e Mori ai processi e non mi occupavo di antimafia, cercavo di fare nel miglior modo possibile il presidente della Camera”.
Il perfetto presidente della Camera, già presidente dell’Antimafia, legge sui giornali che Brusca e Mori rivelano la trattativa fra Stato e mafia avviata nel ’92 dal Ros e che fa? Pensa che non sia il caso di precipitarsi dai giudici a raccontare quanto gli disse Mori dei suoi colloqui con Ciancimino, perché “ha altro da fare”. Cioè inciuciare col centrodestra con la famosa riabilitazione dei “ragazzi di Salò” che contribuì a oliare gli ingranaggi della Bicamerale e a riesumare l’appena sconfitto B. come padre costituente. La prova generale dell’inciucio si era svolta nel ’95, quando centrosinistra e FI avevano votato insieme la prima controriforma bipartisan della giustizia: la legge “manette difficili”, molto attesa non solo dai mazzettari di Tangentopoli, ma anche da Cosa Nostra. Tant’è che – lo conferma la sentenza Trattativa – Dell’Utri ne teneva costantemente informato Vittorio Mangano, storico trait d’union fra mafia e mondo berlusconiano.
La schiforma, osteggiata dall’Anm, da pochi giornalisti (fra cui chi scrive) e da pochissime forze politiche (la Lega di Bossi e i Verdi), era figlia del decreto Biondi, varato il 14.7.94 da B. per salvare dalla galera il fratello e gli altri manager Fininvest che avevano corrotto la Guardia di Finanza, e poi ritirato a furor di “popolo dei fax” su richiesta di Bossi e Fini. Bobo Maroni, ministro dell’Interno, denunciò di essere stato tenuto all’oscuro del contenuto del decreto e delle sue conseguenze (notissime invece a Mangano). Non solo la scarcerazione di centinaia di tangentisti, ma anche i danni irreparabili alle indagini di mafia grazie a un codicillo che – si legge nella sentenza – gli aveva segnalato il procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli: quello che imponeva ai pm di svelare agli avvocati i nomi dei mafiosi indagati, vanificando la segretezza delle indagini.
I mafiosi si allarmarono per lo stop: Brusca spedì Mangano due volte a chiedere spiegazioni a Dell’Utri, nella sua villa di Sala Comacina. Lo raccontò nel ’97 ai pm Salvatore Cucuzza, reggente pentito del clan di Porta Nuova (in tandem con Mangano). L’amico Marcello lo rassicurò: tutto il peggio del decreto sarebbe stato riversato in un ddl che sarebbe passato nel gennaio ’95. Mangano mostrò a Cucuzza il testo della “riforma” che Dell’Utri gli aveva passato in anteprima. Poi però il primo governo B. cadde per mano leghista, rimpiazzato dal governo Dini. E fu il centrosinistra a levare le castagne dal fuoco a Cosa Nostra e a B., approvando il ddl il 3.8.95, sempre coi voti di FI.
Le norme pro mafia che stavano a cuore a Mangano e ai suoi boss erano quattro. 1) Abolito l’articolo 371-bis del codice penale, la norma anti-omertà voluta da Falcone per arrestare in flagranza i testimoni falsi o reticenti. 2) Abolito l’arresto automatico per associazione mafiosa. 3) Accorciati i termini massimi di custodia cautelare anche per la mafia. 4) Ridotti al lumicino gli arresti per pericolo di fuga o di inquinamento probatorio. “Il partito dei giudici è finalmente sconfitto”, esultò il lottatore continuo Luigi Manconi. Tripudiarono pure i boss, che avevano interrotto le stragi per dar tempo a B. e Dell’Utri di mantenere le promesse. Ed ebbero conferma della loro attendibilità grazie al fondamentale apporto del centrosinistra. Come se B. fosse pure il leader di Pds, Ppi & C.
Qualche mese dopo, ottobre ’95, il colonnello Michele Riccio apprende dal confidente Luigi Ilardo che questi sta per incontrare Bernardo Provenzano in un casolare di Mezzojuso. E subito avverte il capo del Ros Mario Mori. Nel giorno stabilito, Provenzano arriva. Ma Mori fa di tutto per non arrestarlo. Verrà assolto perché sì, Provenzano era lì a portata di manette; sì, quella del Ros fu una “condotta attendista sufficiente a configurare in termini oggettivi il reato” di favoreggiamento mafioso (sentenza di primo grado); sì, “molti episodi connotano di opacità l’operato inspiegabile” del Ros, dalla mancata perquisizione del covo di Riina nel ’92 alla mancata cattura di Santapaola nel ’93 (sentenza di appello); sì,non catturando Provenzano si è favorita Cosa Nostra; ma non è abbastanza provato il dolo, cioè l’intenzione di favorire Provenzano e Cosa Nostra: il Ros potrebbe aver agito “per trascuratezza, imperizia, irragionevolezza o, piuttosto, per altro biasimevole motivo”.
Infatti quel gran genio di Mori, che ha così ben meritato, anziché degradato sul campo e spedito a dirigere il traffico, sarà sempre difeso da destra e sinistra e promosso a capo del Sisde. Ora sarà un caso, ma è bastato che dopo 24 anni FI e Pd mollassero il governo perché una Corte trovasse il coraggio di mettere nero su bianco quello che tutti sanno da tempo: lo Stato trattò con la mafia e condannò a morte almeno 15 innocenti.
Caro Roberto Saviano, chi governa merita certamente le critiche più feroci. Ma prima dev’essere chiaro a tutti quali “ministri (e governi) della malavita” hanno infestato l’Italia fino a quattro mesi fa.