La crisi ha avuto il suo apice nel 2015-2016: solo tre milioni di persone hanno chiesto asilo in Europa, a fronte di 508 milioni di europei. Questo tema ha condizionato le elezioni del 4 marzo, non è stato un errore, onorevole Marco Minniti, porlo al centro dell’agenda politica?
C’è stata una significativa riduzione di arrivi in Italia a partire dal 2017, ma ci siamo trovati di fronte a questo duplice messaggio: essere di fronte a un’emergenza, ma l’immigrazione non è un’emergenza, è una grande questione che ha a che fare con la storia del mondo; evocare una situazione straordinaria, uno stato d’ansia associato a un potenziale rischio. Da qui la risposta, sbagliata, di misure straordinarie tese a far cessare l’emergenza. Invece, l’immigrazione è un fenomeno strutturale e una moderna democrazia deve governare i flussi migratori, combattendo l’illegalità ma costruendo percorsi di legalità. Vede, umanità e sicurezza non possono essere due termini di una polarità: la spinta nazionalpopulista di oggi racconta che bisogna sceglierne uno, invece il compito della democrazia è conciliare entrambi i concetti. Rispetto ai 250 ricollocamenti “ottenuti” dal governo Conte, aggiungo, che hanno aperto le porte i Paesi che negli ultimi mesi hanno già accolti 11mila persone, non i loro alleati di Visegrád.
Per l’Unhcr non c’è vita facile in Libia nei centri di detenzione e stiamo parlando solo di quelli ufficiali. Gli operatori hanno difficoltà di movimento, devono essere scortati dai libici… Lei ha puntato molto su questi centri con l’Unhcr, dopo un anno crede di aver sbagliato qualcosa o di non aver finito il lavoro?
Abbiamo messo in campo una visione, un modello. Il principio era intervenire lungo grandi direttrici: il controllo dei confini libici, Mediterraneo e terrestre. Dal luglio 2017 al maggio scorso c’è stata una capacità di controllo delle partenze dalla Libia con un -85%: 124mila persone in meno in un anno entrate in Italia. Il ruolo della Guardia costiera libica poi… il pezzo di un “sistema” non esclusivamente fondato sulla Libia, perché in quel sistema c’erano la Guardia costiera italiana e le Ong firmatarie del codice di condotta. Che poi significa tutte le Ong, tranne “Medici senza frontiere” che comunque operava lo stesso a bordo di Sos Mediterranée. Altri pezzi del sistema erano Frontex e l’operazione Sophia. Questo sistema ha consentito una progressiva presa di controllo salvando vite in mare.
Che delle motovedette libiche non ci fosse da fidarsi, però, era chiaro da subito.
Appunto, ripeto, stavano dentro un “sistema”. Oggi si vuol caricare sulle spalle dei libici tutto il peso della sicurezza in mare, un peso oltre le loro capacità operative. La cosa incredibile che questo succede a fronte del fatto che non esisteva, con quel sistema, una situazione fuori controllo. Aggiungo che la comunità internazionale non è mai riuscita a convincere i vari governi libici, il regno, il regime e l’attuale Stato, a firmare la Convenzione di Ginevra. Fino allo scorso anno Onu e Organizzazione internazionale per le migrazioni non potevano operare in Libia, agivano da Tunisi. So perfettamente che sul campo ci sono difficoltà, ma quello che è stato fatto è un passo avanti importantissimo. L’Unhcr ha già potuto selezionare 1500 persone che hanno diritto alla protezione internazionale e, quindi, devono essere portate in Italia e in Europa con corridoi umanitari. A dicembre 2017 e gennaio 2018 trecento mamme con bambini sono atterrate con gli Hercules della nostra Aeronautica militare. Mi veniva in mente quando ho visto l’immagine, terribile e su cui non voglio speculare, della madre col bimbo morti in acqua e la cito per dire che serve rafforzare quei canali già aperti. Quindi è tutto a posto in Libia? No, ma sono stati fatti dei passi avanti: abbiamo Ong presenti a Tripoli. Poi bisognerebbe continuare a parlare con le comunità locali come è stato fatto con i sindaci delle città colpite dal traffico di esseri umani. L’Unione europea ha stanziato 50 milioni per riconvertire quelle economie basate sul traffico, dovremmo chiedere diventino 500.
Dalla definizione “taxi del mare” di Di Maio in poi, al di là delle inchieste giudiziarie, c’è una criminalizzazione e generalizzazione delle Ong, non trova? Non si sente in parte responsabile?
Io no. Dobbiamo essere più oggettivi. C’è stata un’indagine parlamentare, votata all’unanimità, caso unico nella scorsa legislatura: ha segnalato proprio il rischio di una generalizzazione delle attività delle Ong. A questo non abbiamo risposto con la chiusura dei porti e criminalizzandole, ma con un codice di condotta frutto di una firma comune e approvato dai ventotto paesi dell’Ue, tra cui quelli (Olanda, Svezia e Francia soprattutto) che sono patria delle Ong. Quel codice serviva proprio per dare una sponda alle Ong, per non lasciarle sole. La via sarebbe continuare su quella strada perché quel codice è un elemento di garanzia, non mi sarei mai sognato di imporlo con una legge. Era un patto. Adesso Aquarius è stata la prima ad essere “respinta” senza aver violato quel codice.
Lei parlò di timore di rischio per la tenuta democratica del Paese…
Neppure per un attimo ho pensato a un colpo di Stato quando lo dissi, intendevo la rottura sentimentale del Paese che dal punto di vista della sinistra c’è stata: uno scivolamento verso posizioni anti-sistema di chiusura nazionalpopuliste. A rabbia e paura non si risponde con le statistiche, non siamo stati capaci di ascoltare; il Pd non è stato, temo non lo sia ancora, un canale aperto di comunicazione con la società italiana.
Che Pd vuole adesso?
Va rivoltato come un calzino, non mi interessano i nomi. Serve un Congresso per capire cosa fare e non un’assemblea di condominio in cui ognuno pensa a salvare i suoi millesimali.
Renzi ha perso, è finito?
Più che dimettersi cosa avrebbe dovuto fare?
Lei si definirebbe renziano?
Ho difficoltà a definirmi minnitiano, figuriamoci altro.