Il mio primo incontro con Andrea Camilleri avvenne nel 1980 all’Accademia nazionale d’arte drammatica, dove insegnava regia e recitazione televisiva. In quell’anno vinsi il concorso e vi entrai come allievo, per rimanervi tre anni. In classe con me c’erano Maria Paiato, Massimo Popolizio, Danilo Nigrelli, Nicoletta Braschi e tanta, troppa gente che ha smesso.
Le lezioni di Andrea all’epoca erano soprattutto teoriche – l’Accademia attraversava un periodo di forte crisi e non aveva le risorse per affittare le apparecchiature necessarie per le lezioni pratiche – e si svolgevano più o meno così: lui entrava in classe, si cominciava a chiacchierare, qualcuno si alzava e proponeva di vedere insieme una certa scena che aveva preparato, la si recitava, la si discuteva… Oppure si parlava degli spettacoli che davano in quel momento a Roma – e che avevamo visto praticamente tutti – o di un film o di uno sceneggiato e Camilleri ci descriveva la metodologia di racconto che era stata usata.
Fu così che mi imbattei per la prima volta nell’incredibile capacità affabulatoria di questo individuo, che ci incantava nonostante la nostra non fosse proprio una classe di santarellini. Ci piaceva da morire far lezione con lui perché ci mostrava l’eccezionale in ciò che noi reputavamo solo quotidiano. Ci faceva vedere come ciò che davamo per scontato potesse invece essere straordinario a patto di saperlo vedere, guardare, apprezzare. Era capace per esempio di parlare per ore del suo vicino di cappuccino che quella mattina aveva “pucciato” il cornetto in una maniera particolare. “Voi – ci diceva – vi accorgete che tutto attorno c’è una vita brulicante di esseri umani, di insetti… e che tutto ciò può essere assolutamente straordinario?”. E ci raccontava che lui aveva imparato a coglierlo da ragazzino, quando si annoiava. Una cosa che, ahimé, ai ragazzi d’oggi non capita più. Ed è un peccato perché la noia ti spinge a cercare qualcosa per sconfiggerla. E quindi impari a osservare. E il modo in cui Camilleri cercava di farci osservare le cose mi ha trasmesso proprio questa curiosità per il mondo.
(…) Credo che una delle cose che piace di più dei suoi romanzi sia proprio questo modo assolutamente non convenzionale di leggere la realtà, questo gusto del paradosso, del trovare il particolare che altri non hanno visto, di riflettere con lo specchio che ha dentro di sé un lato mai scontato e mai convenzionale dell’oggetto che l’altro non riesce a vedere nella sua interezza.
(…) Trovavo inoltre fantastico che, nonostante allora fosse un personaggio ancora sconosciuto ai più, non facesse dipendere la propria autostima dal riconoscimento degli altri. Mi piace moltissimo questo modo di pensare: io valgo per quello che sono, al di là del riconoscimento che il mondo mi dà e se il mondo non me lo dà, non è detto che sia io a valere poco, può essere che sia il mondo a sbagliarsi. Non è insomma il successo a determinare la mia autostima.
Il mio incontro con il Camilleri scrittore risale invece a molti anni dopo. Girando in libreria vidi che questa piccola casa editrice siciliana – con una veste molto elegante e soprattutto con una carta piacevole al tatto – aveva pubblicato alcuni libri di Camilleri. Pensai: “Toh, Andrea ha cominciato a scrivere… che strano”. Ne comprai due: uno sul commissario Montalbano, uno dei primi, e un romanzo storico, Il birraio di Preston. Lo feci più che altro per una forma di cortesia e di amicizia, nella speranza che quell’acquisto potesse in qualche modo andare a ingrossare il numero delle copie vendute. Li lasciai da parte per qualche mese, poi li cominciai a leggere. Il birraio di Preston mi piacque tantissimo, ma soprattutto mi fulminò quello sul commissario Montalbano. Mi ricordo che dissi tra me e me: “Questo è un personaggio meraviglioso!”. Al punto che pensai anche di comprarne i diritti, ma all’epoca non avevo una lira e soprattutto non ero un attore famoso e quindi in grado di montare su di sé un’operazione del genere. Dovetti lasciar perdere. Ma perché mi piacque così tanto il commissario Montalbano? (…) Montalbano rappresenta certi valori che forse appartenevano più alla generazione dei nostri nonni, e per i quali non possiamo non provare una struggente nostalgia. Non voglio dire che ai loro tempi si vivesse meglio, si vive certamente meglio adesso, però in alcuni casi abbiamo buttato il bambino con l’acqua sporca. Abbiamo dato un colpo di spugna su certe cose senza pensarci troppo. E invece forse avremmo dovuto pensarci non due ma dieci volte. Di questi valori qui, che forse non esistono più, proviamo una nostalgia incredibile perché sappiamo che invece andavano preservati. Perché non vale la pena vendersi al primo venuto per un tozzo di pane, che può essere anche un posto in televisione ma sempre tozzo di pane è rispetto a quello che dovrebbe essere il pensare e l’agire di un essere umano.
Passarono un paio d’anni e venni a sapere che un piccolo produttore di Bologna aveva comprato i diritti e che di lì a poco ci sarebbero stati i provini per il ruolo di Montalbano. Al che dissi alla mia agente di allora, Carol Levi, la decana degli agenti italiani, che ricordo con grande affetto: “Anche se lo cercano alto, biondo e con gli occhi azzurri io voglio fare il provino”. Ero – stupidamente – sicuro che avrei avuto quel ruolo. E lo ero perché avevo un’idea precisa di come avrebbe dovuto essere il personaggio e pensavo che questo fosse sufficiente. Dopo sei mesi di provini in cui il drappello dei pretendenti si era sempre più andato assottigliando arrivò la telefonata della mia agente: “Vogliono te, ce l’hai fatta”.
A quel punto telefonai a Camilleri e gli spiegai che non lo avevo chiamato fino ad allora perché non volevo dargli l’idea che cercassi il suo aiuto. Lui mi rispose che sapeva tutto, che il produttore lo teneva informato, che era molto felice per me e che, anche se in tutta verità lui pensava per Montalbano a un altro tipo di attore, con un’altra fisionomia, era sicuro che avrei fatto un ottimo lavoro. (…) Dopo la prima settimana di riprese telefonai a Camilleri e gli dissi: “Andrea, mi sento bloccato”. E lui mi rispose: “Ti senti bloccato perché ci stai pensando, lasciati andare, lascia che l’attore che è in te, che ha lasciato sedimentare tutte le informazioni, agisca, emerga. Non mettere in mezzo il filtro mentale”. Questo consiglio, che potrebbe sembrare una stupidaggine ma non lo è per niente, suggeritomi da quello che era stato il mio docente di recitazione, mi sbloccò.
(Testo raccolto da Paolo Flores d’Arcais e curato da Ingrid Colanicchia)