Sotto le mura di Capalbio un gruppo di habitué benpensanti e ben vestiti, scopre il sapore forte della resistenza al Governo spalleggiato da Putin. “Ma l’hai sentita questa cosa dei Tvoll russi contvo Mattavella?”, dice la signora con la evve moscia che si porta bene tra Pescia e “Gavavicchio”. Tutti concordano. Vien da chiedersi perché la signora non chieda ai suoi commensali: “L’hai sentita questa storia della società di Alan Friedman che nel luglio 2011 chiedeva 200 mila euro al mese per fare lobby con i politici europei e con i media a favore del presidente Viktor Janukovych, quello filo-Putin?”. Oppure: “L’hai saputo che Friedman era pagato da Paul Manafort, l’uomo della campagna di Trump, quello del Russiagate? E lo hai letto che una società di lobby filo-ucraina pagava l’ex cancelliere austriaco Alfred Gusenbauer? E che Friedman sosteneva nelle sue mail di voler usare Gusenbauer per reclutare altri politici e quello poi pagava Romano Prodi per migliorare i rapporti internazionali dell’Ucraina?”. O ancora: “Lo sai che Prodi ha scritto un articolo sul New York Times, rivisto con Friedman, prima della pubblicazione, e modificato mediante un tale che poi nel 2017 è diventato portavoce di Rick Gates, il socio di Paul Manafort?”. O ancora: “Lo sai che in quell’articolo Prodi si scagliava contro i manifestanti più violenti e chiedeva di non applicare le sanzioni europee contro Janukovich? E che, proprio quel giorno, il 20 febbraio 2014, la Polizia a Kiev uccideva decine di manifestanti?”.
Infine: “lo sai che sul sito del giornale che ha lanciato giovedì l’allarme contro i troll russi, il Corriere, c’è un video del 14 marzo 2014 nel quale Prodi, con Friedman accanto, parla di Ucraina vantandosi di aver votato contro il suo ingresso in Europa e di aver parlato del tema con Putin?”. Nessuna di queste domande echeggia nelle sere di Capalbio, ma nemmeno nelle redazioni dei giornali. Le interferenze russe sono di moda solo se riguardano i tweet che partono da San Pietroburgo in favore di Salvini e Di Maio, non se imbarazzano Prodi e Friedman, due soggetti ben integrati nell’establishment che controlla i giornali.
Alessandro Pansa, capo del Dis che coordina i servizi segreti italiani, è stato chiamato a riferire in Parlamento sui tweet. La Procura di Roma ha aperto un’indagine contro ignoti nella quale si ipotizza accanto al vilipendio, punito fino a 5 anni, anche l’attentato alla libertà del capo dello stato, punito da 5 a 15 anni. La Polizia Postale e l’antiterrorismo sono già sulle tracce dei troll travisati e si contesta anche la sostituzione di persona, punita fino a un anno. In questo clima il Corriere ha scomodato la sua migliore cronista, Fiorenza Sarzanini, per scovare la pistola fumante, un tweet, scelto tra tanti forse perché triangola con i sovversivi annidati nel nostro giornale: “In risposta a @fattoquotidiano Mi vergogno di essere siciliano come #Mattarella il siciliano è un popolo da sempre succube della mafia. Ora abbiamo un Presidente della Repubblica SUCCUBE.” Firmato Davide S.”.
Il messaggio farebbe parte, secondo il Corriere, della tempesta di tweet anti-Mattarella originata da un’unica fonte, nella notte tra il 27 e il 28 maggio 2018, quando il Capo dello Stato si oppose alla nascita di un governo con Paolo Savona ministro dell’Economia.
Il pezzo del Corriere bolla quell’attacco come “un tentativo andato a vuoto che però non cancella la pressione politica esercitata sulla più alta carica istituzionale e dunque consente ai magistrati del pool antiterrorismo di Roma di procedere nell’ipotesi che dietro il tweet storm ci fosse un disegno eversivo”. Ecco spiegata l’inchiesta per attentato alla libertà di Mattarella. A troll estremi, estremi rimedi. Nel pezzo si delinea l’identikit di chi avrebbe dato il via al coro anti-Colle: “Una società specializzata (…) il primo profilo sarebbe stato creato con un’iscrizione avvenuta in Italia, quella dello snodo dati che si trova a Milano”.
A ben vedere prima della tempesta di tweet non c’era la quiete. La sera del 27 maggio Luigi Di Maio telefonò a Fabio Fazio in diretta tv per chiedere la messa in stato d’accusa di Mattarella. Quattro milioni di italiani sentirono non un troll ma il leader che aveva appena preso 10,5 milioni di voti fare pressione sul Capo dello Stato. Al confronto la pressione dei tweet messi in circolo dai 360 profili nel mirino della Procura sembra una piuma. Eppure la Procura ha scelto di sparare con il bazooka dell’articolo 277 codice penale sul branco dei leoni da tastiera anonimi del 27 maggio, ignorando il capo branco a volto scoperto.
Se dietro alla tempesta dei tweet ci fosse una sola mano sarebbe una notizia dal punto di vista giornalistico. Se poi la società fosse legata a Lega e M5S sarebbe una doppia notizia anche dal punto di vista politico. Ma siamo proprio sicuri che sarebbe anche una notizia di reato?
In fondo un cittadino, se non esagera fino al vilipendio, ha il diritto di criticare il presidente per la scelta (a parere di chi scrive legittima, ma secondo alcuni costituzionalisti al limite delle sue prerogative) di porre il veto su un nome del nascente governo. Magari è stupido ma è lecito chiedere la messa in stato di accusa e le dimissioni di un Capo dello Stato che sacrifica sull’altare dei mercati un ministro indicato dalla maggioranza.
Il limite del codice penale resta quello dei reati di vilipendio e attentato alla libertà del Capo di Stato, ora contestati ai troll ignoti. Entrambi sono un retaggio dell’epoca monarchica e sul reato più grave non c’è praticamente giurisprudenza. Sul più lieve vilipendio la Corte di Appello, dopo una condanna in primo grado, ha assolto Francesco Storace che aveva usato parole poco gentili verso Giorgio Napolitano: “indegno di una carica usurpata a maggioranza”. L’attentato alla libertà e all’onore invece è stato contestato già dai pm di Palermo a cinque utenti che avevano contestato troppo duramente Mattarella a maggio.
Oggi il tintinnar di manette però non è rivolto verso chi insultò il presidente sui social in solitudine. Bensì verso chi aprì il 27 maggio tanti profili twitter finti per attaccare Mattarella simultaneamente.
Ora sarà il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a dover autorizzare la Procura a procedere, come per il caso del presunto vilipendio contro Mattarella del padre di Alessandro Di Battista. Certamente Bonafede autorizzerà e sapremo finalmente chi sono registi della tweet-storm. Però resta la sensazione che una pena da 5 a 15 anni di galera sia eccessiva. In fondo i tweet ora all’attenzione dei pm di Roma, presi individualmente, non erano stati incriminati. Oggi lo sono perché secondo i giornali ci sarebbe una regia unica. Ma le orde organizzate dei troll non sono una novità. Tutti i personaggi pubblici subiscono ondate di offese da utenti anonimi. Al massimo querelano il singolo e non invocano la Polizia per scovare il regista. Si dirà che il Capo dello Stato non è un cittadino qualunque. Ma siamo sicuri che sia un bel Paese quello nel quale un gruppo di troll (magari organizzati da un partito) può attaccare un giornalista o un cittadino mentre la stessa strategia diventa reato gravissimo quando nel mirino finisce un’alta carica? L’antica regola della stampa, nata per servire i governati e non i governanti, si dovrebbe applicare anche a Twitter. Se poi davvero dietro alla fabbrica dei troll anti-Mattarella ci fossero i russi, le cose sarebbero diverse: le interferenze andrebbero investigate a fondo dai servizi segreti e dalla Polizia.
In quel caso sarebbe utile persino una commissione di inchiesta contro le ingerenze della lobby filo-Putin anche per individuare i rimedi normativi alle incursioni estere. Però, oltre al presunto regista dei tweet anti-Mattarella, bisognerebbe convocare in Commissione anche Prodi per chiedergli dettagli sui soldi che ha preso dall’ex cancelliere austriaco Alfred Gusenbauer e sulle mail scambiate con Friedman. Il Fatto ci ha già provato, senza successo.