C’è un dato tanto chiaro quanto significativo nel bilancio di Autostrade per l’Italia, la società che ha in concessione 3mila chilometri autostradali, tra i quali c’è il ponte crollato ieri a Genova: nel 2017 su 3,9 miliardi di ricavi il margine lordo è stato di 2,4 miliardi. Una redditività di oltre il 50 per cento, una specie di albero della cuccagna per qualsiasi società industriale o di servizi. Ma se i profitti dei Benetton, la famiglia che controlla, attraverso Atlantia, Autostrade per l’Italia, sono favolosi, non lo è altrettanto la situazione delle strade da cui si ricavano i ricchi pedaggi.
Una bassa qualità delle strutture viarie, gli scarsi livelli di manutenzione, la quantità enorme dei traffici su gomma, sono il tratto caratterizzante del sistema stradale nazionale. Il 90 per cento delle merci viaggia su strada e l’80 per cento del trasporto di persone su automobile. Di fronte a questi dati, l’unica risposta è sempre stata quella di costruire nuove autostrade e nuove strade per fluidificare i traffici ed assecondare “lo sviluppo” dell’economia, fondato sul cemento. È un sistema gestito in gran parte dalle lobby private dei concessionari autostradali e da costruttori che spesso sono di loro emanazione. Lobby economiche che hanno assicurato alle concessionarie, senza gare europee, il 60 per cento di lavori, servizi e forniture. I protagonisti di questa politica sono i 27 concessionari autostradali (la rete più frammentata d’Europa) e la pubblica Anas. Dei 6.926 chilometri di rete autostradale, la metà è gestita da Autostrade per l’Italia, il resto da altri gruppi privati come Gavio e Toto e da concessionarie in mano pubblica, come la Serravalle (regione Lombardia), Autovie Venete (Friuli e Venezia Giulia) o l’Autobrennero (Trentino Alto Adige).
Dopo le privatizzazioni delle autostrade, senza un riordino del settore, la strategia dei concessionari è stata sempre la stessa: programmare nuove autostrade per vedersi rinnovate le concessioni senza gara. La rete, invecchiando, andrebbe ristrutturata, ma si preferisce definire prioritarie nuove autostrade e nuovi grandi improbabili corridoi europei, anche se la mobilità stradale è sempre più per traffici pendolari/residenziali, quindi di tragitti brevi e attorno alle grandi aree urbane del Paese.
La vecchia rete, i cui costi d’investimento sono già ammortizzati (mentre le tariffe continuano a crescere) sta perdendo colpi e va ristrutturata. Per mantenerla in efficienza, i soldi ai concessionari non sono mai mancati. I contratti che regolano le concessioni sono segreti per legge (circostanza che dà un idea del rapporto tra pubblico e privato in questo settore) ma basta guardare i bilanci per capire i lauti profitti che si fanno non restituendo allo Stato la giusta parte delle rendite derivanti dai pedaggi. In fondo i concessionari fanno il lavoro più facile del mondo, l’esazione ai caselli, dimenticandosi però della manutenzione. È il risultato dell’inadeguatezza e della sudditanza politica che regna da decenni tra gli organi vigilanti pubblici, cioè il Ministero dei Trasporti e dell’Anas, che si sono lasciati accecare dalle sirene di nuove grandi opere e clientele connesse. Organismi che non hanno svolto adeguatamente la loro funzione di controllo sullo stato di salute della rete stradale (ponti, asfalto drenante, segnalamento, servizi ausiliari) e sulle tariffe in crescita.
Sebbene i traffici e i pedaggi siano in aumento (sempre ben oltre l’inflazione), e l’occupazione nel settore in calo (spariti i casellanti), gli investimenti diminuiscono. Scriveva l’Aiscat, la potente associazione che raggruppa i concessionari, nel novembre dello scorso anno: “Il risultato operativo delle 26 società aggregate all’Associazione, pur con qualche oscillazione ha recuperato il calo degli anni della crisi e ha segnato record di oltre 2,5 miliardi di euro di profitti”. Quello che cala sono gli investimenti: “Il 2018 – scrive ancora l’Aiscat- sarà ancora un’annata al minimo storico per gli investimenti: 8/900 milioni di euro rispetto al miliardo del 2016 e alla media di 2,4 miliardi nel periodo 2008-2015”.
Dagli ultimi conti di Autostrade emerge un calo degli investimenti operativi sulle infrastrutture in concessione dai 232 milioni del primo semestre 2017 ai 197 del primo semestre 2018. Un trend in corso da alcuni anni.
Il gruppo Atlantia nello stesso periodo ha fatto però altri investimenti. Ha comprato per esempio l’aeroporto di Nizza, il gruppo più importante delle autostrade spagnole (Abertis) e una quota della società che gestisce l’Eurotunnel. Il senso del profitto e dell’investimento insomma non è mancato al gruppo. Se per i concessionari autostradali l’Italia è il Paese del Bengodi, viene da chiedersi: il ministero dov’è? Perché non si adottano convenzioni con penali severe, fino al ritiro della concessione in caso di mancato rispetto del volume degli investimenti? Gli accordi contenuti nelle convenzioni tra ministero dei Trasporti e concessionari autostradali in pratica non vengono rispettati. E l’autorità del controllore (il potere pubblico) in questi anni è talmente calata da essere quasi passato al ruolo opposto, quello di controllato.
In molti ritengono che un ritorno allo Stato nella gestione delle autostrade, sarebbe salutare per la collettività e assicurerebbe decine di miliardi di introiti alle casse pubbliche. A questo proposito, si è calcolato che la sola concessione dell’Autobrennero, non rinnovata, porterebbe un beneficio di 5 miliardi. Il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli ieri ha avvertito che il responsabile del disastro di Genova pagherà fino all’ultimo centesimo e, secondo indiscrezioni, sarebbe pronto a valutare, in caso di responsabilità certe, la sospensione della concessione ad Autostrade. Ieri in Borsa il titolo della controllante Atlantia ha perso il 5,4%.
*Presidente dell’Osservatorio Nazionale Liberalizzazioni e Trasporti (Onlit).