Chi pensa che la scuola abbia una funzione di ascensore sociale, che serva a dare opportunità a chi non ne ha ricevute abbastanza dalla famiglia, dovrebbe essere indignato dalla lunghezza delle vacanze estive cui sono condannati gli studenti. E chiedere che vengano cancellate, o almeno ridotte.
Il tema lo solleva l’Economist: è d’estate che le differenze di classe sociale esplodono. I figli di famiglie benestanti si rigenerano nelle case al mare o in montagna, si formano in corsi di lingua all’estero, hanno tempo per leggere, fare sport. Per i genitori a basso reddito l’estate è un incubo: lo stipendio se ne va in babysitter o i figli vengono tenuti ad annoiarsi in ufficio, centri estivi o vacanze studio rappresentano un salasso capace di compromettere il bilancio familiare. Secondo i dati citati dall’Economist, gli studenti in estate perdono fino al 25 per cento di quello che hanno imparato durante l’anno, ma i poveri disimparano più in fretta dei ricchi perché hanno pochi stimoli e case con meno libri.
Tre mesi di vacanze estive sono (forse) un’eredità di un’epoca contadina in cui i bambini d’estate dovevano aiutare i genitori nei campi. Oggi, con sempre meno aziende che chiudono mesi interi, non hanno senso. Sarebbe molto più utile tenere aperte le scuole d’estate, non come parcheggio, ma con corsi specifici che arrichiscano l’offerta formativa: lingue straniere, teatro, cinema, anche educazione fisica. Per garantire alle famiglie la possibilità di andare comunque in vacanza basta copiare l’università: ogni studenti deve frequentare un certo numero di corsi per ottenere i crediti necessari, scelga lui se a giugno, a luglio o ad agosto. Un piano ambizioso consentirebbe di assumere altri insegnanti (oltre a far lavorare di più quelli che già ci sono, unica categoria di lavoratori ad avere una pausa così lunga). Tutti ci guadagnerebbero. Sarebbe certo costoso, ma molto meno di un chilometro di Tav o di un bonus pre-elettorale.