Due recenti vicende hanno reso palese un problema del giornalismo economico italiano e dunque del dibattito pubblico: la morte di Sergio Marchionne e il caso Autostrade. Marchionne è stato beatificato in un modo che neanche lui avrebbe apprezzato. Nessuna sfumatura critica nelle celebrazioni, nessuna distinzione tra i profitti degli azionisti di Fiat e gli impatti sul Paese. E poi le Autostrade: gli stessi giornali, piccoli e grandi, che in passato invocavano mercato, liberalizzazioni e privatizzazioni oggi difendono il diritto della famiglia Benetton di accumulare rendite miliardarie a spese dei contribuenti.
Come se lo stato di diritto e la democrazia stessa dipendessero dalla tutela di privilegi ottenuti grazie a leggi su misura, conflitti di interesse (Gian Maria Gros Pietro vende Autostrade ai Benetton dall’Iri e poi va a presiedere Autostrade) e presidio degli asfittici salotti buoni della finanza (e dei giornali).
Lo status quo del settore autostradale, così come quello dell’energia e di molti altri settori regolati, è contestabile a prescindere dalle tragedie. Ma le stesse testate e gli stessi editorialisti che sono prontissimi a pretendere l’applicazione della direttiva Bolkestein (gare obbligatorie) per ambulanti e balneari, si profondono in untuosi distinguo quando si tratta dei potenti concessionari autostradali o dei grandi gruppi dell’energia, di cui si evita addirittura di parlare.
Non è sempre stato così. Anche in un Paese di editori impuri con mille interessi da presidiare, ci sono sempre state voci forti, anche nei giornali dell’establishment, che difendevano le ragioni del mercato contro la rendita parassitaria. Quelle voci ora sono spente o laterali. Questo non è soltanto deprimente, ma è un pericolo per la categoria e per i lettori, privati di strumenti di comprensione. Dopo il crollo di Genova grandi giornali e tg sono sembrati gli ultimi difensori di un sistema che elettori e lettori stanno cercando in ogni modo di abbattere.