“No, il posto non c’è, nemmeno quest’anno. Però aspetti fiduciosa che prima o poi qualcuno ritirerà il figlio e lei potrà scalare la graduatoria”. Nella corsa disperata per un posto all’asilo nido, Giovanna Cavaliere – la mamma della piccola Rebecca – è il secondo anno consecutivo che non riesce neanche a presentarsi sulla linea di partenza, perché sua figlia di due anni non ha mai conquistato il posto. “Anche quest’anno – racconta Giovanna – sarò costretta a sborsare 485 euro al mese per pagare l’asilo privato. Né i miei genitori né i suoceri possono tenere Rebecca. La baby sitter mi costerebbe più di quanto guadagno e quando la piccola sta male mi arrangio con la vicina. Del resto, al mio lavoro non posso rinunciare, visto che sommando il mio stipendio a quello di mio marito non arriviamo a duemila euro. La mia sfortuna più grande? Risiedere in un quartiere dove vivono famiglie che stanno economicamente peggio di noi. È una guerra tra poveri”.
Insomma, gli asili nido più che un servizio essenziale sono piuttosto un Superenalotto: per due bimbi tra 0 e 3 anni che vincono, ce ne sono 8 che restano a casa. Perché le strutture sono poche, i posti disponibili soltanto il 22,8% di tutti i bambini di quella fascia d’età e i costi eccessivi a carico delle famiglie con significative differenze territoriali. E in questa giornata di riapertura degli asili nido è soprattutto nelle grandi città e al Sud che ci si accorge che l’Italia non è Paese per bimbi. A dare un po’ di numeri su questa foschissima fotografia è l’analisi dell’Ufficio valutazione impatto (Uvi) del Senato, che nel dossier “Chiedo asilo” offre risposte sul perché in Italia manchino i nidi e cosa si sta facendo per recuperare il ritardo.
Solo in un quarto delle Regioni i bimbi possono contare sui servizi per la primissima infanzia: la media nazionale è del 22,8%, un traguardo assai lontano dall’obiettivo – peraltro modesto – del 33% fissato dall’Unione europea. Ma per rispettare la quota chiesta dall’Ue occorre assicurare un posto a 343.583 bambini nei nidi d’infanzia a finanziamento pubblico, realizzando 162.421 nuovi posti. E i conti si fanno amari: stimando 7.962 euro l’anno il costo medio dell’accoglienza per ogni bambino, le spese di gestione ammonterebbero annualmente, a regime, a 2,7 miliardi di euro. Mentre per l’anno scolastico appena iniziato sono stati previsti appena 239 milioni di euro che, però, fanno parte di un tesoretto di quasi 700 milioni di euro (stanziato con la riforma della Buona scuola) che tra il 2017 e il 2019 le Regioni distribuiscono ai Comuni per potenziare sia i nidi sia le scuole dell’infanzia da 0 a 6 anni (così come prevede la legge 107/2015 che ha trasformato i due segmenti educativi in un unico sistema integrato) per la costruzione/ristutturazione delle strutture, il restauro, la messa in sicurezza e il risparmio energetico di stabili di proprietà delle amministrazioni locali, ma anche per la riqualificazione degli insegnanti.
La richiesta comunitaria era chiara. Nel 2002 il Consiglio europeo di Barcellona ha posto a tutti gli Stati membri l’obiettivo di “fornire, entro il 2010, un’assistenza all’infanzia per almeno il 90% dei bambini di età compresa fra i 3 anni e l’età dell’obbligo scolastico” e “almeno il 33% dei bambini di età inferiore ai 3 anni”. L’Italia ha però raggiunto il primo obiettivo prima del 2010 – nel 2015 il 96% dei bambini di età 4/5 anni frequentava la scuola dell’infanzia – ma sul secondo è ancora in ritardo: meno di un quarto dei piccoli tra 0 e 2 anni trova posto nei servizi per la prima infanzia. E se in Valle d’Aosta vanno al nido 4 bimbi su 10, in Campania ce la fanno solo 6 su 100. Eppure, in questi 10 anni sono stati avviati diversi (e costosi) interventi per aumentare l’offerta zero/tre: a partire dal 2007 lo Stato ha speso circa 1,15 miliardi di euro (in media circa 100 milioni l’anno), a cui va aggiunta l’ultima tranche della riforma della Buona scuola. Senza contare che a questi fondi si sono aggiunte nel corso degli anni anche le risorse comunali: dal 2008 al 2014 i sindaci hanno speso per i servizi zero/tre quasi 8,4 miliardi di euro, mentre le famiglie hanno contribuito in misura crescente ai costi del servizio: la loro quota è passata dal 17,4 al 20,4% della spesa.
Ma la distribuzione dei soldi è stata squilibrata: Campania, Calabria, Sicilia e Puglia hanno assorbito il 60% del totale con risultati decisamente deludenti. Nel dettaglio, l’Uvi ha censito 13.262 servizi socio-educativi per la prima infanzia – di cui il 36% pubblico e il 64% privato – che hanno garantito complessivamente 357.786 posti, pari al 22,8% dei bambini italiani tra 0 e 2 anni. Più alta l’accoglienza in Valle d’Aosta (record nazionale: 39,9%), Umbria, Toscana, Emilia Romagna e provincia autonoma di Trento, che hanno raggiunto e superato il target europeo del 33%. In tre Regioni nel sud, Calabria, Campania e Sicilia, meno del 10% dei bambini sotto i tre anni è stato invece accolto in un nido. Maglia nera alla Campania: 6,4%.
Le conclusioni del report dell’Uvi sono chiare: calcolando che il settore privato attualmente copre circa l’11% dell’utenza, per raggiungere il 33% occorrerebbe che i servizi sostenuti da finanziamenti pubblici accogliessero il 22% dei bambini tra zero e tre anni, raddoppiando il numero attuale di utenti (nel 2014 erano 197.328). I bimbi accolti dovrebbero salire a 343.583, ben 162.421 in più.
Un dato che è anche rivisto al ribasso: i posti conteggiati sono ogni anno più bassi perché calano rispetto all’anno precedente le richieste di iscrizione non solo per la bassa natalità, ma anche perché c’è una fetta importante della famiglie che non riescono a sostenere la costosa retta mensile che comprende pasti e pannolini. Tanto che, secondo l’ultima indagine effettuata da Cittadinanzattiva, una famiglia tipo composta dai genitori e il minore sotto i 3 anni con un reddito lordo di 44.200 euro (corrispondente a un Isee di 19.900 euro), arriva a sborsare 301 euro al mese. Ma la situazione è comunque molto disomogenea sul territorio. Se nel Molise la tariffa media è di 167 euro, agli antipodi si colloca il Trentino Alto Adige con 472 euro. A livello di capoluoghi per i nidi si va dai 100 euro al mese di Catanzaro e Agrigento ai 515 euro di Lecco. Gli aumenti più rilevanti negli ultimi tre anni sono stati registrati a Chieti (50,2%), Roma (33,4%), Venezia (24,9%). “Sul tema delle disuguaglianze di accesso ai servizi nel nostro Paese, gli asili nido sono un caso emblematico”, commenta Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva. Che aggiunge: “Ci sono troppe disparità tra i costi che le famiglie devono sostenere a seconda della provincia in cui risiedono, altrettante disparità nell’accesso e aree del Sud del paese in cui il servizio è veramente ridotto al minimo (pochi asili, pochi posti, orari ridotti) il che incide sul livello di occupazione femminile”.
C’è, quindi, poco da stupirsi se in Italia nel 2017 sono nati solo 464mila bambini, il 2% in meno rispetto al 2016 quando se ne contarono 473mila. Cifre che per l’Istat battono il precedente record di minimo storico dall’Unità d’Italia, registrato nel 2016. Un dato che relega il Belpaese in fondo alla classifica della natalità in Europa: da noi il tasso di natalità è del 7,8% – spiega l’Eurostat –, contro numeri a due cifre di Irlanda (13,5%), Svezia e Regno Unito (11,8%) e Francia (11,7%).
Inoltre, se in Italia un quarto delle donne occupate abbandona il lavoro dopo la maternità, negli altri Stati l’occupazione delle neo mamme mostra un percorso a U (forte discesa nei primi tre anni di vita del bambino e un graduale ritorno al lavoro in seguito). A fare la differenza sono, infatti, il mix di interventi messi in campo da decenni nel Vecchio continente in grado di incentivare la natalità e il lavoro femminile. La ricetta con cui si aiutano le donne a fare figli è chiara: soldi in tasca subito (assegni legati alla maternità), aiuti nella cura dei bambini (dagli asili nido alle baby sitter di famiglia), congedi parentali più flessibili e benefit vari (spesso a sostegno dei redditi più bassi).