Dieci anni che somigliano a una corsa sull’ottovolante: si provano emozioni forti, si annusa la paura. Poi il carrello rallenta, la corsa è finita. Guardi l’orologio e non è più il 2008 ma il 2018, eppure ci sono certe risonanze inaspettate. Un decennio fa esplodeva l’America, in questo caso non per una guerra o per il peggiore degli attentati. Anzi, mentre volgeva al termine il secondo mandato di George W. Bush e la psicologia collettiva trovava finalmente sollievo dallo choc dell’11 settembre, si sarebbe detto, che le cose marciassero nella direzione giusta. Che per una famiglia della middle class voleva dire soprattutto lavoro soddisfacente, una bella casa e un gruzzolo per sostenere il peso degli studi dei figli, preparandosi a una vecchiaia serena. Dunque si sta parlando di soldi, senza troppi giri di parole. È il quadro americano sul quale s’abbatte la crisi del 2008. Inattesa e incomprensibile. Perché i presagi non erano facili da cogliere e, soprattutto, erano ingannevoli. E perché l’allegria governativa di Washington aveva avallato lo stato delle cose, consentendo che le tessere del disastro si sistemassero al loro posto.
Celebrazioni senza pentimenti – Dieci anni fa. Sembra ieri, ma è passato abbastanza tempo per ripensarci e analizzare. Per esempio, quel sottile fattore della natura umana che consiste nella sua capacità di ripetere gli errori. Verrebbe da pensare che sia la matrice evolutiva a essere fallata. Oppure, per dirla con gli economisti, che sia semplicemente la cadenza dei cicli. Centinaia di dirigenti della Lehman Brothers si sarebbero dati appuntamento a Londra il prossimo 15 settembre per un superparty commemorativo del fallimento della ditta per cui lavoravano. Per celebrare il fatale crollo del 2008, che peraltro ebbe effetti devastanti anche sull’economia inglese, viste le aziende e i privati cittadini che erano in affari con Lehman. “Questa storia ha del disgustoso” ha dichiarato il ministro dell’Economia del Regno Unito. L’email d’invito inviata ai “Lehman Brothers & Sisters” recita: “Difficile credere che siano trascorse 10 primavere dai nostri giorni alla Lehman, dove la cosa migliore erano le persone. Rincontriamoci, tutti insieme, dai capi fino all’ultimo analista!”. Delle reunion dello stesso genere sarebbero in programma anche a New York e Hong Kong.
Caccia ai rendimenti, con qualunque rischio – Torniamo a quel settembre 2008, nei paraggi di Wall Street: regnavano cinque grandi banche d’affari che non si occupano di gestire i risparmi dei privati, ma di organizzare gli investimenti delle società e dei grandi clienti. In ordine di grandezza erano: Goldman Sachs, Morgan Stanley, Merrill Lynch, Lehman Brothers e Bear Stearns. La quarta della graduatoria, Lehman, quella con la reputazione più spregiudicata, dal 1994 era guidata da Richard “Gorilla” Fuld, che passerà alla storia come “il peggiore Ceo di tutti i tempi”. Con la sua caduta Lehman sarà il detonatore della peggiore crisi economica del millennio, paragonabile a quella del ’29. Anche se Lehman sarà più un effetto che una causa. E anche gli altri colossi dell’economia americana scopriranno i loro piccoli, friabili piedi d’argilla. Perché l’erosione era cominciata, silenziosamente, molto tempo prima quando varie circostanze erano andate in scena sincronicamente: l’avidità insaziabile di Wall Street, la sua spietata disinvoltura e il senso di onnipotenza, le demenziali politiche di prestito messe in atto dalle banche, anche dalle più gracili e poi la negligenza nei controlli del governo Bush e la deregulation sbocciata nel comparto finanziario già dai tempi della presidenza Clinton. Su tutto, il delinquenziale disinteresse del mondo degli affari verso la gente normale, le vittime da spolpare, sospinte nel baratro dei debiti senza neanche una fune con cui tentare la risalita.
Le cronache puntualizzano che all’origine della caduta va messa la condotta della Federal Reserve, la Banca centrale degli Usa, e lo storico delle sue decisioni su quei tassi d’interesse che regolano la politica dei prestiti bancari. Perché per smuovere l’economia è indispensabile abbassare i tassi: solo così le banche chiederanno più soldi e a loro volta li presteranno a gente ansiosa d’investirli in acquisti magari collocati al di sopra delle proprie possibilità, d’improvviso raggiungibili appunto grazie alla facilità d’accesso a questi prestiti. In quel momento, poiché i tassi erano bassissimi e quindi i guadagni assai limitati, le banche cominciarono a prestare soldi a chiunque ne facesse richiesta, anche in assenza di garanzie attendibili. Le banche assunsero dei rischi superiori al lecito, perché la priorità era generare una massa di movimenti sufficienti a garantire utili decenti.
Il sistema si blocca e crolla tutto – Ecco allora che si gonfia a dismisura la bolla dei mutui subprime (quelli di qualità non “primaria”, dal momento che l’affidabilità del contraente è incerta): comprare una casa non è mai stato facile come in quei giorni. Il mercato immobiliare prospera, c’è da fare soldi seri. E tutto pare girare a meraviglia. Salvo che il congegno va in panne allorché la Federal Reserve interviene per rialzare i tassi: i mutui a tasso variabile, gran parte di quelli stipulati per l’acquisto di case, s’impennano, pagarli diventa più difficile, tanti rinunciano. L’epidemia si diffonde velocemente. Il valore degli immobili precipita, si perdono posti di lavoro, si ferma la spesa. Il Paese si paralizza un attimo prima del panico, nel pieno di una grande depressione, sconforto di chi afferra di aver agito irresponsabilmente.
Lehman Brothers è nel cuore del disastro. La sua attività principale consiste nel rilevare mutui emessi da banche più piccole, inserendoli nel labirintico mondo dei titoli derivati, quelli non muniti di un valore intrinseco bensì di un valore derivato, appunto, da altri prodotti finanziari, ossia dai beni reali alla cui variazione di prezzo sono agganciati. Gli americani scoprono che il valore delle case di cui pagano i mutui finisce parcellizzato in misteriose entità finanziarie, titoli garantiti da ipoteca, obbligazioni di debito collaterali. Modi esoterici di far soldi, speculando. Almeno fino al giorno in cui il valore di quei titoli sprofonda, li trasforma in spazzatura o, come si dice in gergo, in titoli tossici, capaci di far naufragare il portafogli di chiunque li possegga. Tra le banche di Wall Street, Lehman e Bear Stearns sono le più attive nel settore immobiliare. Bear Stearns va in frantumi e viene rilevata a prezzi di realizzo da Morgan Stanley. Pochi giorni dopo tocca a Lehman. È il settembre 2008 ed è questione di ore. Lehman, la banca diversa e spavalda, quella dove si lavora in jeans e si parla sporco, si trasforma in una zattera alla deriva. Chi la salverà? Il Congresso? Mentre una moltitudine di americani sta finendo travolta da debiti e insolvenze? Mentre si perdono lavoro e casa? Mentre il sogno si tramuta in incubo? Impensabile. Washington si sfila. Che l’economia faccia il suo corso.
L’abbandono di Buffett e i timori di Barclays – La Bank of America intanto corre in soccorso di Merrill Lynch, ma non risponde agli appelli di Lehman. Gli unici disponibili si rivelano essere gli inglesi della Barclays, che pongono però condizioni severe: ci devono essere dei garanti che sponsorizzino l’operazione di recupero. Il Segretario del Tesoro, Henry Paulson, riunisce tutti i banchieri di Wall Street per mettere insieme il paracadute indispensabile all’acquisizione di Lehman da parte di Barclays. Il 13 e 14 settembre 2008 la riunione-fiume alla Federal Reserve apre uno spiraglio di speranza: suddividendosi i rischi, le banche forniranno il puntello necessario. Ma, con un colpo di scena, è invece la Barclays a tirarsi indietro: il contagio non deve sbarcare a Londra e il Tesoro britannico ha scelto di rimandare la grana nelle mani di Paulson. Il Segretario tenta l’ultimo colpo: chiede soccorso a Warren Buffett, il grande finanziere. Dall’altra parte del telefono, solo silenzio. Salvare l’America va bene, ma contraddire i propri principi economici per aiutare chi li ha derisi, è troppo anche per lui. Paulson e il responsabile della Sec, l’ente federale statunitense di vigilanza alla Borsa, comunicano al consiglio d’amministrazione di Lehman che l’unica opzione sul tavolo è la bancarotta.
Quel crollo, descritto dalle immagini televisive dei dipendenti con gli occhi spiritati, espulsi nel giro di poche ore dagli uffici della Lehman, avviati verso casa come zombie abbarbicati ai loro inutili portafortuna, trascina con sé 9 milioni di posti di lavoro, i mutui di 9 milioni di case e milioni di conti pensionistici. Milioni di americani si ritrovano estromessi dalla classe media. Una disperazione attonita. Case abbandonate. Disoccupati senza prospettive. Boom di divorzi e psicofarmaci. La crisi indirizzerà l’elezione 2008: il comando della nazione, e anche questa grana, finiranno nelle mani di un presidente nero. In coincidenza con l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca, nel febbraio 2009, l’economia Usa sta perdendo 700 mila posti di lavoro al mese. Il Congresso approva un pacchetto di provvedimenti di stimolo economico: 3.000 miliardi in tagli alle tasse, aiuti agli Stati, spese per le infrastrutture. Solo tre senatori repubblicani e nessun deputato sostengono il provvedimento.
A dispetto delle proprie responsabilità, il principale complice politico del disastro si oppone a qualsiasi riforma di Wall Street. Una strategia che darà i propri frutti negli anni a venire, lasciando ai Democratici il peso psicologico della manovra. E così Obama si ritrova a fare il contabile: salva la nazione, ma salva anche banche e banchieri. Le sue politiche mettono fine alla recessione, ma i nuovi posti di lavoro crescono a rilento e i mutui latitano. E nessun tycoon di Wall Street finisce sotto processo. Alla fine gli americani si sentiranno presi in giro. La reazione prenderà il nome di Tea Party o di Occupy Wall Street, a seconda di come la si veda.
Le élite ripetono lo stesso schema – Dieci anni dopo, le grandi banche adottano ancora condotte spericolate, sostenute dai Repubblicani, impegnati a smantellare la legge Dodd-Frank che dovrebbe prevenire dei collassi come nel 2008. La forbice delle retribuzioni si è allargata, la diseguaglianza è aumentata, i profitti delle corporation sono misteriosi. L’America 2018 è il prodotto diretto del cataclisma del 2008. La presidenza Trump è stata generata come effetto terminale di quel terremoto emotivo. E le strategie d’attacco messe in atto dal gabinetto che ora sta guidando, i dazi, per esempio, potrebbero delineare una congiuntura altrettanto pericolosa di quella di dieci anni or sono.
A questo punto, allora, conviene ragionare su un sistema che enuncia un certo genere di principi, ma poi si consegna alla periodica distruzione di ampie regioni della propria geografia sociale. Se il sistema americano affronta due implosioni come il ’29 e il 2008, sopravvive, si rialza, ma ne rigenera i fattori-sorgente, la deduzione è quella dell’esistenza di un vizio congenito ed ereditario: l’élite non resiste all’istinto di plasmare a proprio piacimento il destino degli “altri”. L’1 per cento e il 99 per cento. Senza scrupoli. I flussi tra le classi o l’impatto degli ultimi arrivati, appaiono soltanto argomenti di contorno. Nelle segrete stanze della finanza americana si producono serialmente processi di autodistruzione autorizzata, che rendono futile e irreale, quel discorso visionario che ci stregò tanto tempo addietro, parlandoci del “destino manifesto” americano.