Dice Matteo Salvini che “non si processano i popoli e i governi liberamente eletti”. Ma l’Unione europea prevede invece questa possibilità per gli Stati che minacciano i valori fondanti del progetto comunitario, lo stabilisce l’articolo 7 del Trattato, e la Commissione europea nel 2003 ha stabilito che questo potere d’intervento vale “anche nei campi in cui gli Stati possono agire in modo autonomo dall’Unione”.
Dopo varie contestazioni nel 2011 e nel 2013, il Parlamento europeo a marzo del 2017 ha chiesto alla commissione Libertà civili e Giustizia di stilare un rapporto che, presentato lo scorso aprile, è la base per il voto di oggi sulle eventuali sanzioni contro l’Ungheria di Viktor Orbán, il premier tornato al potere nel 2010 che ha impresso una svolta autoritaria al Paese, dopo che la crisi finanziaria del 2008 aveva fatto vacillare la fiducia nelle promesse dell’integrazione europea. Le 26 pagine del report firmato dall’eurodeputata verde Judith Sargentini, raccolgono la sintesi di tutte le contestazioni ricevute dall’Ungheria da parte dell’Onu, della Corte europea dei diritti dell’uomo, dell’Osce che vigila sulla correttezza dei processi elettorali. Contestazioni che Orbán ha di solito ignorato. E non si tratta soltanto di migranti, che pure sono l’argomento di cui più si discute nel resto d’Europa perché l’Ungheria rifiuta di accogliere i rifugiati arrivati in altri Paesi (Italia e Grecia) e prevede “l’obbligo di incarcerazione” per i richiedenti asilo, bambini inclusi, fino al termine della procedura di analisi della loro domanda.
L’Ungheria di Orbán mette in discussione tutti quegli equilibri tra poteri tipici delle democrazie occidentali. Il report Sargentini parte dalle fondamenta, la Costituzione: nel 2012 Orbán l’ha riformata con una restrizione dei poteri della Corte costituzionale, che non può più neppure rifarsi alla propria giurisprudenza precedente alla riforma. Orbán ha cancellato il passato e si è assicurato di poter condizionare il futuro, rivedendo l’età di pensionamento dei giudici così da poterli sostituire. Ha usato lo stesso sistema per l’intero apparato giudiziario con una riforma del 2012, contestata dalla Corte di Giustizia europea: pensionamento obbligatorio a 62 anni di giudici, pubblici ministeri e notai, violando gli obblighi di legge europei di ridurlo gradualmente a 65 con un periodo transitorio di dieci anni. Ma Orbán voleva decapitare i vertici del potere giudiziario, già nel 2011 aveva creato un Ufficio nazionale giudiziario, di nomina politica, che duplicava l’organo di autogoverno della magistratura sottraendogli poteri.
Il controllo politico della giustizia può indurre in tentazione: nel 2018 il comitato dell’Onu per i diritti umani ha denunciato che le leggi attuali in Ungheria sulla sorveglianza segreta motivata da ragioni di sicurezza nazionale “consentono intercettazioni di massa e non prevedono tutele sufficienti contro violazioni arbitrarie della privacy”. E per evitare che la stampa critichi questo genere di norme, Orbán ha varato anche una riforma dei media che prevede criteri stringenti e discrezionali di cosa sia un “contenuto illegale” oltre a obblighi di rivelare le fonti delle notizie.
Il consenso di Orbán si regge sulla costruzione di nemici interni ed esterni per difendersi dai quali servono leggi sempre più dure. Non soltanto i migranti, ma anche le minoranze di ogni genere, una riforma del 2011 ha tolto il riconoscimento a “centinaia di chiese prima riconosciute”, i rom sono discriminati in vari modi al punto che – ha contestato la Commissione Ue nel 2016 – “i bambini rom sono presenti in percentuali sproporzionate nelle scuole per bambini con disabilità mentali e sono segregati in quelle normali”.
Dal 2017 Orbán è poi sotto attacco dalla Ue per le sue leggi contro le università straniere operanti in Ungheria e contro le organizzazioni non governative nel Paese. Il bersaglio, che sollecita pulsioni di un antisemitismo ormai esplicito, è sempre il finanziere George Soros, con la sua Central European University che doveva diffondere i valori occidentali nei Paesi ex sovietici. Anche se Soros ha finanziato gli studi a Oxford del giovane Orbán, a febbraio 2018 il governo ha fatto approvare il pacchetto di norme “stop Soros” che ha messo fuori legge l’università del finanziere nato proprio a Budapest nel 1930.
Oggi il Parlamento deve decidere se tutte queste politiche elencate nel report Sargentini sono compatibili con i valori Ue o vanno sanzionate. Un voto che segna uno spartiacque per capire cos’è rimasto dell’Unione europea.