Il 23 settembre il Fatto compie nove anni. E da nove anni, a costo di peccare di superbia, ne siamo orgogliosi ogni giorno. A volte, poi, ci sentiamo persino utili. Per esempio ieri, quando abbiamo pubblicato tre notizie che forse, senza il Fatto, non sarebbero esistite. Una è l’annuncio del sottosegretario all’Editoria Vito Crimi, che fa proprie due storiche battaglie del nostro giornale: contro i finanziamenti pubblici alla stampa e per un tetto pubblicitario alle tv commerciali (dunque soprattutto a Mediaset), che diversamente dalla Rai non hanno limiti di spot e (almeno nel caso di Mediaset) beneficiano da 24 anni di un surplus di annunci commerciali rispetto a quelli che meritano in base allo share: un surplus chiamato “politica”, “conflitto d’interessi”, “scambio di favori”, “marchette”. La seconda è la condanna disciplinare inflitta dal Csm all’ex presidente della Corte d’assise di Chieti, Camillo Romandini, finito nei guai per due accuse: aver intimidito la giuria popolare che con lui giudicava 19 ex dirigenti e tecnici Montedison per la discarica di Bussi, per farli assolvere; e non essersi astenuto dopo aver partecipato, poco prima del verdetto, a una cena col governatore-parte civile Luciano D’Alfonso, in cui si parlò anche del processo. Fu Antonio Massari, sul Fatto, a svelare i retroscena della sentenza, così la Corte d’appello fece in tempo a tramutare l’assoluzione plenaria di primo grado nella condanna di 10 imputati.
La terza notizia sono le dimissioni di Mario Nava da presidente Consob, appena cinque mesi dopo la nomina. Chi volesse sapere a cosa serve il Fatto, può leggersi gli altri quotidiani sul tema. Corriere della Sera: “Nava lascia la Consob: ‘Non gradito alla politica’”, “La solitudine del tecnico che voleva rilanciare il mercato”, “L’Italia si mostra non in grado di trasmettere… la stabilità. Predominerà il sapore sgradevole delle scelte politiche mai tese a garantire assetti istituzionali durevoli. Quanto, invece, a garantirsi fedeltà e riconoscenza. Se non addirittura a dare luogo a manovre di piccolo cabotaggio e personalismi” (commento di Daniele Manca). Repubblica: “Consob, Nava lascia. M5S esulta”, “Consob, si dimette il presidente Nava assediato dal fronte gialloverde”, “Le purghe grilline”, “‘Per i gialloverdi c’era una grave incompatibilità tra Nava e il suo incarico’. ‘Pare fosse addirittura competente’” (vignetta di Ellekappa). La Stampa: “Dopo mesi di attacchi da parte di 5 Stelle e Lega il presidente lascia: ero sgradito, impossibile lavorare”, “Da Ferrovie a Rai, così i giallo-verdi hanno pianificato i cambi al vertice”.
Il Messaggero: “Nava: ‘Basta attacchi, mi dimetto’. Il presidente Consob lascia dopo il pressing di Lega e 5Stelle”. Chi ha la fortuna di leggere questi quotidiani, penserà che questo fiero campione della competenza e martire dell’indipendenza sia stato prima nominato dalla cicogna e poi cacciato dai feroci epuratori legastellati, ansiosi di mettere le mani sulla Consob. Chi invece legge il Fatto sa bene fin da aprile – quando Nava fu nominato dal fu governo Gentiloni dopo le elezioni e la sconfitta della maggioranza di centrosinistra e ben prima della nascita del governo gialloverde – che Nava era totalmente incompatibile con la Consob. Per un motivo molto semplice: è un dipendente della Commissione europea (capo della divisione Affari finanziari) e tale è rimasto anche quando è passato a guidare l’autorità indipendente di controllo sulla Borsa. Cioè: non s’è posto in aspettativa (come impone la legge istitutiva della Consob), ma è rimasto distaccato “in comando” e “nell’interesse” del governo Ue. Come possa un’autorità “indipendente” essere presieduta dal dipendente di un’altra amministrazione, lo sanno solo i magliari dei giornaloni che lo difendono e spacciano le sue dimissioni, tanto doverose quanto tardive, per una congiura del nuovo governo. Che invece, nella persona del premier Conte, gli aveva offerto una via d’uscita dal vicolo cieco in cui si era pervicacemente cacciato: lasciare la Ue o andare in aspettativa.
Ma Nava non ne ha voluto sapere, per non perdere i privilegi del suo status: l’immunità dalla giustizia nazionale, gli scatti di carriera, i benefit e la tassazione agevolata del suo stipendio, molto più alto a Bruxelles che alla Consob. Come ha spiegato Giorgio Meletti, “prendendo l’aspettativa Nava avrebbe visto i 244 mila euro lordi dello stipendio tassati in Italia al 40% e dunque ridotti al netto a 146 mila, pari a soli miseri 10 mila euro al mese”. Invece, “rimanendo dirigente a Bruxelles in distacco, avrebbe goduto della tassazione agevolata degli eurocrati al 7%, che avrebbe portato il netto mensile da 10 a 16 mila euro”. Sulle prime, Nava aveva persino mentito ai commissari Consob, spiegando che l’aspettativa gli era preclusa dalle norme europee. Ma era stato sbugiardato a stretto giro dalla stessa Avvocatura della Consob e pure dal commissario Ue Oettinger che, rispondendo a un’interrogazione 5Stelle, aveva spiegato come l’aspettativa sia un’opzione normale dei funzionari che traslocano altrove. Infatti Mattarella, imbarazzato dalle bugie e dall’arroganza del personaggio (“se le istituzioni hanno problemi con me, mi chiamassero”), non ha speso una parola in sua difesa, ben diversamente da un anno fa, quando fece scudo al governatore Visco contro gli assalti di Renzi e dei suoi epuratori, ansiosi di mettersi in tasca Bankitalia (infatti ora Renzi spalleggia Nava contro i “cialtroni” gialloverdi, confermandone l’assoluta indipendenza da tutti fuorché dal Pd). Ma tutto questo i giornaloni non lo scrivono: siccome il governo ha sempre torto, a prescindere, anche quando ne fa una giusta, molto meglio raccontare la Nava e la fava.