Forse la scelta per gli elettori sarà soltanto tra un populismo di destra e uno di sinistra, ma c’è ancora chi pensa che ci sia spazio per idee e politiche che sono state sconfitte. Per celebrare i suoi 175 anni, l’Economist pubblica un lungo manifesto per “reinventare il liberalismo nel XXI secolo”. Non è un programma politico di destra, men che meno neo-liberista nel senso che intendiamo di solito. È più un tentativo di declinare in politiche concrete dei valori di fondo che il settimanale inglese (e globale) continua a difendere. La sintesi è tanto ovvia quanto difficile: bisogna trovare nuovi strumenti per raggiungere vecchi obiettivi di crescita, democrazia, concorrenza, pluralismo, uguaglianza di opportunità. Anche l’Economist riconosce che, nella sua lunga storia editoriale, i liberal hanno sostenuto politiche tra loro opposte, a seconda del momento storico.
Il messaggio di fondo è che i liberali devono continuare a vedere la società come un luogo di conflitti, di interessi contrapposti (magari anche ugualmente legittimi) in una società dinamica che offre incentivi a migliorarsi. Un’idea contrapposta a quella statica dei populismi che sono rassegnati all’assenza di crescita e nel migliore dei casi invocano una redistribuzione dalle élite verso il popolo.
L’Economist supera vari tabù: apre a un reddito minimo universale (o di cittadinanza) come nuova frontiera del welfare, arriva a chiedere nuove tasse per correggere le disuguaglianze, a cominciare da una vera imposta di successione e sulla terra, invoca una vera lotta contro i nuovi monopoli (soprattutto del digitale). L’ostacolo più grosso pare però la questione migratoria: difficile opporsi alle urla scomposte dei nazionalisti. L’Economist infatti sconsiglia idealismi da “società aperta”, meglio innovative politiche come tassare i migranti stessi per redistribuire risorse a favore delle comunità locali o incentivare fiscalmente i residenti a diventare “sponsor” di un migrante. Sono spunti, ma utili a ricordarci che l’egemonia populista non è inevitabile.