Ci sono giornate buone e giornate meno buone. Anche per una grande compagnia come Eni. Ieri giornata negativa, con le condanne di due mediatori delle tangenti petrolifere che Eni avrebbe pagato in Nigeria. Il giorno prima, invece, erano arrivate le assoluzioni nel processo per le mazzette in Algeria, che hanno salvato, in primo grado, l’ex amministratore delegato Paolo Scaroni e il responsabile operativo per il Nordafrica Antonio Vella, pur confermando che la corruzione c’era e condannando i manager della controllata Saipem.
La vicenda nigeriana è più spinosa di quella algerina, perché coinvolge anche l’attuale amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, oltre al suo predecessore Scaroni (oggi vicepresidente di Rothschild, referente in Italia del fondo Elliott e presidente del Milan dopo l’uscita di scena del misterioso impreditore cinese). Il processo in cui sono imputati a Milano insieme a una decina di altre persone è alle prime udienze, ma ieri è arrivata, come un antipasto, la sentenza di primo grado per due imputati che avevano scelto il rito abbreviato: il nigeriano Obi Emeka e l’italiano Gianluca Di Nardo, mediatori dell’affare petrolifero stretto tra l’Italia e il Paese africano. È una sentenza di condanna, in primo grado, a 4 anni di carcere per concorso in corruzione internazionale. Oltre alla pena detentiva, il giudice dell’udienza preliminare Giusy Barbara ha deciso anche la confisca di 140 milioni di euro.
Condanna e confisca riguardano soltanto i due mediatori e non obbligano i giudici del processo principale, appena iniziato, a seguire le orme del giudice dell’abbreviato: perché il suo non è un verdetto definitivo e poi perché, non essendo una “sentenza dibattimentale”, non ha efficacia su un processo con rito ordinario. Ma certo è un primo giudizio che non promette niente di buono per Eni e i suoi vertici: un giudice ha sentenziato che la corruzione c’è stata e che la mazzetta è stata pagata.
La vicenda inizia in Nigeria nel 2011, quando Eni e Shell conquistano la concessione di un super-giacimento petrolifero, detto Opl 245, versando 1 miliardo e 300 milioni di euro su un conto ufficiale del governo nigeriano. Tutto regolare, sostiene Eni. Peccato che i magistrati milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro ricostruiscano che i soldi vanno poi a finire sui conti privati della società Malabu, dietro la quale si nasconde l’ex ministro nigeriano del petrolio Dan Etete. E poi girano per conti libanesi e svizzeri, fino a tornare in Nigeria, nei conti di ministri e politici locali che si intascano almeno 523 milioni.
Il primo schema dell’affare prevedeva il pagamento diretto della tangentona a Dan Etete e ai suoi uomini, con l’intervento – secondo l’ipotesi d’accusa – di intermediari italiani (Luigi Bisignani e Gianluca Di Nardo) e stranieri (il nigeriano Emeka Obi e l’azero Ednan Agaev, ex ambasciatore russo in Colombia). Questo schema, ritenuto troppo rischioso, viene abbandonato e sostituito con il pagamento diretto al governo nigeriano. Ma è solo un cambiamento formale – sostiene l’accusa – per rendere il pagamento della tangente meno visibile. È lo stesso affare, ma fatto – dice Agaev – “con il preservativo”.
La storia, sotterranea, emerge almeno in parte nel 2013 a Londra, quando Obi trascina in tribunale Etete, accusandolo di non avergli pagato la commissione per il suo ruolo di mediatore, in società con Di Nardo. Il giudice britannico gli dà ragione, ingiungendo all’ex ministro nigeriano del petrolio di pagargli 110 milioni, versati e subito spostati in Svizzera. Dove piombano i pm milanesi, che nel 2014 ne ordinano il sequestro, ritenendoli una parte della tangente. Ieri la gup Barbara conferma questa lettura, disponendo la confisca di 140 milioni. Dunque la corruzione internazionale c’è stata, la tangente è stata pagata, i mediatori sono ritenuti colpevoli di concorso in corruzione. Allargando lo sguardo e passando dai mediatori ai corruttori, da una parte, e ai corrotti, dall’altra, il processo ordinario potrebbe stabilire le responsabilità di Eni e di Shell, anch’essa imputata con l’ex numero uno Malcolm Brinded e tre ex manager.
Eni “ribadisce la correttezza del proprio operato” e si dice convinta che il processo ordinario lo dimostrerà. L’associazione Re:common, che aveva chiesto di costituirsi parte civile nel processo milanese, dichiara invece che “è giunto il momento che il governo italiano, in qualità di principale azionista di Eni, consideri la possibilità di sospendere tutti i manager coinvolti nel caso, fino al giudizio definitivo”.