Partiti in cerca di un lavoro. Gli emigranti esistono anche in Italia. Vanno verso il nord del Paese, verso l’Europa, verso l’America. Lasciano la famiglia come a inizio Novecento, con una ideale “valigia di cartone”. Dopo l’articolo di Antonello Caporale ecco alcune delle loro storie raccontate a valigiadicartone.ilfatto@gmail.com
“E che ci stiamo a fare a Sala Consilina?”
Vivo a Sala Consilina, in provincia di Salerno. Quando vado al lavoro guardo con malinconia la luce accesa dell’appartamento di un mio zio che ha 90 anni. Penso che tra qualche anno quell’appartamento sarà vuoto perché due dei suoi tre figli, miei coetanei, se ne sono andati a Milano e a Urbino nel 1983. I due figli della sorella, unica rimasta a Sala, vivono a Milano e Londra. I miei nipoti (23 e 20 anni) studiano a Venezia e a Bologna. Sono incazzatissimo per tutto ciò. Già a 14-15 anni iniziano a dire “E che faccio qua? Che ci sto a fare?”. Sicuramente ci sono problemi strutturali, ma è pur vero che c’è una narrazione maledetta che inchioda Napoli alla perdizione assoluta (complice anche Saviano a mio modesto avviso) e che fa sognare ai nostri nipoti la Bocconi, il Politecnico di Torino, e via dicendo. Guarda ho una rabbia che non posso contenere.
Giulio Pica
Cosa mi trattiene qui con i miei figli altrove?
Domenica 16 settembre 2018, stazione di Potenza centrale, frecciarossa delle 7.38 per Milano. Ho accompagnato mia figlia che parte per Bologna per iscriversi all’università; sulla banchina tanti giovani come lei con le rispettive famiglie. Parte il treno, saluto mia figlia trattenendo le lacrime, mi guardo intorno e vedo che sulla banchina siamo rimasti solo noi genitori. Cosa mi trattiene qui se i miei figli vanno via? Il cielo terso, l’aria pulita, la mancanza di stress, l’assenza di traffico, il costo della vita non elevato o i risparmi di una vita investiti (ormai persi) in immobili da destinare un giorno ai figli? Io e le mie sorelle rivogliamo con noi i nostri figli. Lo stiamo gridando ma purtroppo non c’è nessuno che ci ascolta.
Pina
Nella nostra città solo impiegati e pensionati
Siamo i genitori di due figlie, ormai quarantenni, entrambe bravissime. Eravamo convinti che non avrebbero avuto problemi nel trovare un lavoro che le gratificasse per il loro impegno, magari non proprio nella loro città, ma comunque in Italia. Così non è stato. La prima, non ha voluto andare all’estero (dove le assicuravano ponti d’oro, dalla Germania, dall’Olanda e persino dalle Hawaii). Adesso fa l’insegnante di scuola media per contribuire al mantenimento della piccola famiglia che si è formata alcuni anni fa in una città dell’Italia del Nord.
La seconda figliola, dopo l’esempio della prima, ha subito deciso di andarsene dall’Italia ed ha trovato immediatamente impiego a Bruxelles.
Ormai nella nostra città non c’è famiglia che non abbia un figlio all’estero. Su meno di 50mila abitanti vi sono seimila appartamenti invenduti, hanno chiuso tutte le poche attività produttive, restano solo impiegati e pensionati, tutti sempre più vecchi e sempre più rassegnati ad un declino ineluttabile.
Dal Piemonte a Madrid (che non discrimina)
Il 10 Ottobre 2005 lasciai l’Italia con il timore di quello che avrei trovato a Madrid ma soprattutto con molta speranza e voglia di ricominciare daccapo. In pieno berlusconismo l’Italia non mi rappresentava più, mi sentivo straniero in un Paese che mi trasmetteva sempre più superficialità e insicurezza, forse dovuto al fatto che come omosessuale l’Italia non è il miglior Paese dove si possa vivere. Quando arrivai a Madrid avevo ventinove anni e qui, per la prima volta, ho preso per mano il mio ragazzo, camminando per strada. Ero intimorito perché in Italia, soprattutto in una cittadina piccola e conservatrice come Asti, non avevo mai potuto farlo, per paura. Qui non è lo stesso. Presi la mano del mio compagno in pieno centro, nella meravigliosa Gran Via, e rimasi sconcertato nell’accorgermi del fatto che nessuno ci guardava, quella moltitudine di persone ci passava a fianco e ci ignorava, come una qualsiasi coppia che si tiene per mano. Mi emozionai e mi innamorai ancora di più di Madrid, città di contrasti, con i suoi lati positivi e negativi, come tutte le città ma che a me continua a sembrare meravigliosa. Laureato in lingua e letteratura in Italia lavoravo in un hotel, sto trattando la pubblicazione (in spagnolo, si, alla fine l’ho imparato piuttosto bene) del mio primo romanzo e studio Psicologia nell’Università più grande di Spagna. Ora guardo l’Italia con il binocolo, da fuori, come se stessi guardando attraverso lo spioncino di una porta che chiusi io e mi chiedo che cosa diavolo stia succedendo nel Paese in cui sono nato.
Marco William L.
Sono “uscito e riuscito” e non tornerò in Sicilia
I miei amici mi chiamano “rinisciotu”: in Sicilia c’è il detto “cu niscia riniscia”, che letteralmente significa “chi esce riesce”. E “rinisciotu” è una persona che nella vita “è riuscita”, ma ha anche un labile accento dispregiativo, perché il “rinisciotu” è anche uno che alla lunga disprezza il luogo in cui è nato, sputa sul piatto dove ha mangiato. Devo ammettere che per certi versi mi calza bene.
Ho 32 anni, convivo a Milano con Martina, abbiamo preso una casa in patto di futura vendita; lavoro da 6 anni e mezzo, faccio il consulente informatico, e la mia branca di specializzazione mi ha aperto tantissime porte e reso una persona molto fortunata; ho diverse richieste, in Italia e all’estero, ho anche lavorato per un anno circa a Lione.
Fino a 6 anni e mezzo fa, poco prima di prendere la mia laurea triennale in fisica, vivevo con mia madre e mio padre ad Adrano, in provincia di Catania, e campavamo con la pensione minima da meccanico di mio padre (circa 800 euro), una sfilza infinita di cartelle esattoriali dell’Inps ed un mutuo di circa 300 euro al mese da pagare. Come facevamo a vivere? C’era zia Pina. Dio l’abbia in gloria per sempre! Solo a ricordarla mi vengono gli occhi lucidi. Zia Pina era la sorella di nonno Agatino, era una suora spogliata, conduceva quindi una vita più che modesta fra casa e chiesa, e prendeva una pensione niente male. Così ogni tanto, quando arrivava una bolletta troppo alta e non sapevamo come fare, mia zia controllava nel cassettone sotto la tv. E lasciava quella carta di 100-200 euro che ci serviva per tirare avanti, e soprattutto per permettermi di completare gli studi.
Perché sono “rinisciotu”? Perché ogni volta che mi trovo in chat a discutere con i miei amici dico peste e corna riguardo alla terra in cui sono nato e ho vissuto per 26 anni. Perché sono consapevole che in Sicilia non metterò mai più piede per un periodo più ampio di 2 settimane. Perché in Sicilia l’ambizione viene frustrata continuamente da problemi di tipo sociale, economico ed ambientale. Non puoi vivere in Sicilia se ti sei acclimatato ai ritmi di una città regolata come Milano.
Ma, in mia difesa, sono “rinisciotu” perché odio ciò che succede in Sicilia. Ormai sono siciliano solo nel cuore, e milanese nella vita. E non tornerò più. Perché sono “rinisciotu”…
Alessio Luca