Non è finita, anzi, è appena cominciata. Per cogliere la tensione dentro al governo sulla legge di Bilancio basta incrociare l’intervista del ministro dell’Economia Giovanni Tria (Sole 24 Ore), quella del premier Giuseppe Conte (Corriere) e l’intervento del ministro degli Affari europei Paolo Savona (Fatto). I numeri che presentano sono diversi e tradiscono la divergenza di vedute sulla Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza di cui conosciamo soltanto l’obiettivo di deficit, 2,4 per cento del Pil per tre anni, visto che i tecnici del Tesoro stanno ancora lavorando sulle simulazioni dopo che il Consiglio dei ministri giovedì ha approvato numeri diversi da quelli portati da Tria.
Tria, come Savona, osserva che il deficit lasciato in eredità dal governo Gentiloni per il 2019 non è lo 0,8 per cento concordato con la Commissione ma, per effetto della bassa crescita, 1,2. A questo però vanno aggiunti i 12,5 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva, che il governo Conte ha deciso di spendere in deficit, come gli esecutivi precedenti. Il vero deficit, quindi, partiva da 2 per cento. Il messaggio di Tria è chiaro: ho ceduto soltanto sullo 0,4, cioè 6 miliardi (una posizione che contraddice però il suo impegno precedente a pretende un deficit 2019 all’1,6 per cento).
Le differenze sono sull’impatto della manovra, tra reddito di cittadinanza, investimenti e riforma delle pensioni. Savona scrive che l’insieme di queste misure “può portare a una crescita nel 2019 di circa il 2 per cento e crescere ancora di mezzo punto percentuale all’anno, raggiungendo (…) il 3 per cento”. Tria, ma anche Conte, danno una stima più bassa: 1,6 nel 2019 e 1,7, abbastanza – dice Tria – per far scendere il debito di un punto percentuale nel triennio (messaggio a Bruxelles).
Tria annuncia poi un dettaglio cruciale che nessuno degli altri ministri del governo ha mai citato: “Una clausola che prevede la revisione della spesa in modo che l’obiettivo di deficit per i prossimi anni non sia superato rispetto al limite posto”. Una frase che conferma il sospetto di molti: che le misure annunciate non siano compatibili con quel livello di deficit ma ne richiedano uno più alto, forse sopra il 3 per cento. Per questo ci saranno clausole di salvaguardia che fanno scattare tagli automatici di spesa (quella per le detrazioni fiscali?) se l’impatto sulla crescita delle misure non è tale da finanziarle con un aumento di gettito. È l’ultima carta rimasta a Tria da giocare nella trattativa con Bruxelles, ma chissà se Cinque Stelle e Lega sono d’accordo. L’ultima volta che un governo ha lasciato una clausola di quel tipo era il 2011, con il ministro del Tesoro Giulio Tremonti che aveva previsto tagli lineari di 20 miliardi alle detrazioni fiscali in assenza di una riforma delle pensioni o di altri interventi di pari entità. Tre mesi dopo quella manovra l’Italia sfiorava il default.
Anche sugli investimenti i numeri non tornano. Conte parla di “38 miliardi nei prossimi 15 anni e altri 15 nel prossimo triennio”. I primi sono stati deliberati dai governi Renzi-Gentiloni, i 15 da questo esecutivo. Tria chiarisce che gli investimenti valgono “circa due decimali di Pil aggiuntivi per il 2019, per poi arrivare a quattro decimali (6,5 miliardi) aggiuntivi nel 2021”. Quindi il grosso dell’intervento non parte subito, ma fra due anni, con effetti che quindi si vedranno ancora più avanti. Savona parla di “un aumento degli investimenti nell’ordine di almeno l’1 per cento di Pil, di cui la metà su iniziativa dei grossi centri produttivi di diritto privato dove lo Stato ha importanti partecipazioni”. Quindi in quel conto ci sarebbero pure gli investimenti di Enel, Leonardo, Eni, che di solito non vengono conteggiati.
Per capire come queste diverse versioni della stessa manovra si concilieranno bisognerà attendere il testo ufficiale della Nota di aggiornamento al Def.