I bicchieri di bianco vanno via veloci, sono appena le dieci del mattino, ma qui a Corteolona e Genzone, in provincia di Pavia, non c’è molto da fare. Paese fantasma. Case vecchie e abbandonate, villette a schiera affacciate sulla strada provinciale 31. Accanto, il fiume Olona. Nel bar Italia, le chiacchiere degli anziani rimescolano un tempo che pare essersi fermato a una data indefinita. Ci si sente sospesi. Sarà questo cielo basso, o la prima nebbia di metà ottobre. Sarà per quel gigante di lamiere bruciato laggiù, verso la strada che porta a Corteolona. “Il mostro?”, domanda il signor Pino (nome di fantasia): “Le fiamme non finivano mai, erano altissime. Ma io avevo visto tutto, ancora prima, i camion che andavano e venivano. Non mi faccia dire altro…”. Pino beve e va via. C’è silenzio, forse anche imbarazzo. Chi resta legge il giornale o inchioda lo sguardo dentro al bicchiere. Poca voglia di parlare. “Il Pino è così, un po’ fumantino – dice un altro signore – ma io non ho visto nulla, sì il fumo, ma prima niente, qui ci facciamo gli affari nostri, si campa meglio”.
Al capannone ci si arriva da Corteolona, ancora prima passando da Belgioioso. Provincia pavese, ricca un tempo, oggi nella mischia della crisi economica. Paesi piccoli e tanta campagna, cascine in disarmo e capannoni abbandonati, il sogno, un tempo, di un terziario che partito veloce ha subito frenato. Decine le ditte fallite, altrettante le strutture svuotate, buone per piccioni e sbandati o, come in questa storia, perfette per imbottirle di rifiuti pericolosi, guadagnando tanto e facendo guadagnare imprenditori senza scrupoli. Fuori dal bar si torna indietro, forse un chilometro anche meno, ed ecco il mostro arrugginito. Un capannone, tre campate, a terra ancora le macerie e i rifiuti bruciati. Qualcuno ha gettato un enorme telo bianco per coprire. Ma nulla si cela. A distanza di mesi, era il 3 gennaio quando il fuoco fu appiccato: 1.800 tonnellate di plastica bruciata. Il disastro è ancora evidente. Oltre al capannone, un fosso di sterpi, poi campi coltivati e avvelenati da quelle fiamme.
Brucia la provincia di Pavia, brucia la città di Milano. Ditte e capannoni. Un solo filo rosso: i rifiuti. A volte anche due roghi nella stessa ditta, a distanza di pochi mesi. Incendi, dunque, se dolosi si vedrà. Diciannove nel solo 2018, 26 negli ultimi 4 anni. L’ultimo, domenica scorsa in via Chiasserini a Quarto Oggiaro: 16 mila metri cubi di rifiuti, fiamme alte quaranta metri, e Milano invasa da fumo e diossina per quattro giorni. Ma le fiammelle sono un po’ ovunque, dalle aree industriali della città e oltre, periferia e provincia. È la nuova terra dei fuochi. Anche se il governatore della Regione Lombardia, Attilio Fontana, si oppone: “No, non è così”.
Eppure questa mappa annerita qui in Lombardia fa salire l’allarme. Perché qui si producono rifiuti speciali più che in tutto il resto del Paese. A far fede, il report 2018 di Ispra, con dati calcolati rispetto ai due anni precedenti. Si legge: “La produzione regionale di rifiuti speciali si attesta a circa 29,4 milioni di tonnellate, il 21,8 per cento del totale nazionale”. C’è poi un dato che in parte spiega questa nuova emergenza. Dal gennaio di quest’anno, la Cina ha smesso di importare circa 24 prodotti di riciclo, tra i quali anche la plastica: un affare da oltre 17 miliardi di dollari all’anno. La chiusura cinese ha così prodotto un reflusso enorme di rifiuti intasando gli impianti e facendo salire i prezzi alle stelle. In Lombardia i 1.222 impianti che trattano rifiuti speciali sono oggi al collasso. E così ecco la corsa degli imprenditori a cercare luoghi dove stoccare e smaltire tutta questa plastica. Se poi il modo è illegale, è anche meglio, visto che così ci si guadagna e non poco. Questa la situazione. Tanto chiara al ministro dell’Ambiente, il generale Sergio Costa, che ha disposto che tutti i siti di stoccaggio dei rifiuti siano considerati siti sensibili, in modo da rientrare nei controlli del territorio disposti dalle varie Prefetture.
L’autocombustione non esiste, e dietro questi incendi vi sono spesso interessi criminali. Ma mancano le indagini approfondite
Questo il futuro, e il presente? In un suo recente intervento davanti ai carabinieri della Forestale, l’ex magistrato ed esperto in normative ambientali, Gianfranco Amendola, spiega che “quasi mai sono state esperite indagini approfondite. Almeno un terzo degli incendi (250 in meno di tre anni a livello nazionale, ndr) non è stato segnalato alla magistratura; ma, anche quando una segnalazione vi è stata, il tutto si è concluso con l’archiviazione”.
Roberto Pennisi, magistrato della Direzione generale Antimafia, ha pochi dubbi: “L’autocombustione non esiste” e dietro questi incendi “vi sono solo interessi criminali” perché “si brucia per coprire altri reati”. Il sistema è questo. E in buona parte non coincide con le logiche della criminalità organizzata, più interessata al ciclo del movimento terra e allo sversamento di materiali nelle cave del Milanese. Certo il milieu è borderline, tra balordi con precedenti penali e imprenditori senza scrupoli. Il sistema criminale, poi, sfugge, in parte, alle maglie delle varie polizie giudiziarie. Lo spiegava molto bene l’ex procuratore aggiunto di Milano Giulia Perrotti, sentita dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti nel 2017 e scomparsa lo scorso giugno. Diceva il magistrato: “Nella realtà lombarda non si sono riscontrati a oggi fenomeni di significativa infiltrazione di organizzazioni criminali nel traffico illecito di rifiuti. Pertanto, l’attribuzione alla Direzione distrettuale antimafia di questa specifica competenza non sempre è stata funzionale alle indagini di un certo spessore, soprattutto perché spesso le indagini partono da ipotesi contravvenzionali”. Ma non c’è solo questo. C’è anche un deficit investigativo causato dallo smantellamento di alcuni organi investigativi. “Fino al gennaio del 2016, che è la data in cui è stata smantellata la polizia provinciale, esistevano sei comandi territoriali della polizia provinciale, distribuiti a garanzia della copertura di tutto il territorio, con 80 operatori, mentre attualmente queste funzioni non vengono più svolte. La maggior parte delle notizie di reato, quindi, proviene dalle polizie locali, le quali non sono adeguatamente preparate in relazione allo svolgimento degli accertamenti fondamentali per il controllo del territorio e soprattutto non hanno le capacità tecniche per effettuare le prime verifiche”.
C’è un poi un vuoto investigativo causato dallo smantellamento di alcuni organi investigativi come la polizia provinciale. “Oggi le notizie di reato arrivano dai vigili che sono poco preparati”. Un aspetto che rende ancora inattaccabile il nuovo sistema criminale fotografato, ad esempio, nell’ultima inchiesta della Dda di Milano che l’11 ottobre scorso ha portato all’emissione di sei misure di custodia cautelare proprio per l’incendio doloso di Corteolona. In un verbale, Riccardo Minerba, ritenuto dalla Procura il regista del traffico illecito, spiega in che modo il rifiuto venisse conferito nel capannone: “Stilavamo alcuni formulari, indicando quale destinazione la ditta Brema Srl, fallita da tempo. Una volta a destinazione i formulari venivano distrutti”.
In questa storia, il profitto resta lo scopo principale. “Utilizzando il sistema illegale dei capannoni – spiega una fonte investigativa – si abbattono i costi di chi tratta i rifiuti, in sostanza ne resta solo uno: quello del trasporto. Il resto, dal trattamento al conferimento in un inceneritore, viene annullato”.
Nella provincia di Pavia sono 284 le strutture abbandonate: di queste, 164 sono capannoni a rischio, mentre già 76 sono stati individuati con presenza di rifiuti. “Sono tutti roghi potenziali”, spiega sempre l’investigatore. Come la struttura abusiva individuata e sequestrata dal Noe, mercoledì a Cornaredo, nel milanese: due persone denunciate e sigilli a 1.200 metri cubi di rifiuti plastici.
Si parte dal sistema illegale dei capannoni, poi lo stoccaggio. Il profitto resta lo scopo
Il sistema criminale prevede in prima battuta lo stoccaggio. L’incendio arriva quando si ha il sospetto di controlli. Come successo a Corteolona. “Ho ritirato la torta – scrive l’autore materiale dell’incendio a Riccardo Minerba – ho fatto mettere la frutta e ho abbandonato al centro il liquore, domani se l’assaggi ti ubriacherai (…) passa domani che la vedi bene”.
Da Corteolona, dove i cartelli “affittasi piazzale” sono un po’ ovunque, a Mortara, il profilo della provincia pavese cambia poco. Anche qui altro incendio, è il settembre 2017. Le indagini sono aperte. Ma una similitudine con Corteolona c’è: l’incendio del deposito di rifiuti scoppia pochi giorni prima che i funzionari dell’Arpa vi accedessero per un controllo. Allo stato, nessuna prova che l’incendio sia doloso.
Copione simile per l’incendio di domenica scorsa a Quarto Oggiaro, quello di via Chiasserini a Milano nel capannone di rifiuti plastici gestito dalla Ipb Italia (che acquisisce il ramo d’azienda dalla Ipb Srl, titolare dell’area). Ipb Italia doveva poi acquisire tutto dalla Srl, per questo aveva chiesto al Comune l’autorizzazione. Lo aveva fatto però dando una fideiussione prodotta da una agenzia maltese e rivelatasi falsa, così come scritto nella nota della polizia municipale dell’11 ottobre, giorno in cui due vigili con ruolo di polizia giudiziaria e funzionari della Città metropolitana controllano il capannone. Dal rapporto si legge: “Veniva accertata la presenza di balle di rifiuti. L’impiegato tecnico dichiara di aver stimato il quantitativo dei rifiuti in circa 16 mila metri cubi”. Accertata la presenza di rifiuti, polizia e ispettori vanno via, nessun sigillo sarà messo: domenica scorsa, più inneschi danno il via all’incendio che per i cinque giorni successivi ha avvelenato Milano. Sulla vicenda è aperto un fascicolo in Procura, allo stato senza indagati. Al vaglio, anche il mancato sequestro.
Sia per il rogo di Corteolona, sia per quello di Quarto Oggiaro, a oggi non vi sono sospetti di legami con il crimine organizzato. La terra dei fuochi lombarda non pare incuriosire i boss, ma è evidente che più i margini di guadagno crescono più aumenta il rischio di una infiltrazione concreta.
Allo stato, i padrini della ’ndrangheta lombarda mantengono interessi nel movimento terra. Dall’indagine “Grillo parlante” che nel 2012 portò in carcere l’ex assessore regionale alla Casa, Domenico Zambetti, emerge un dato. In un’annotazione dei carabinieri si legge: “Chi è del mestiere non può ignorare che gli autotrasportatori originari di Platì sono collegati, direttamente o indirettamente, alle cosche, tanto in ragione dei loro rapporti di parentela quanto per il loro modo di agire”. Si tratta, in questo caso, delle cosche Barbaro e Papalia, presenti nella zona sud-ovest di Milano.
Buona parte di questi personaggi oggi lavora tranquillamente per ditte di trasporto anche all’interno di alcune cave, in questo modo potendo accedere a cantieri pubblici di importanza strategica. Se Milano brucia, la ’ndrangheta, per ora, sta alla finestra.