Ingenui o sprovveduti o incompetenti o raggirati che siano stati, i 5Stelle salvano la faccia in extremis e soprattutto risparmiano all’Italia l’ennesimo, indecente maxi-condono agli evasori, dopo i tanti targati centrodestra e centrosinistra (anche se il condono, sia pure mini, rimane). Ora però dovrebbero fare qualcosa per evitare che casi del genere si ripetano, modificando il sistema legislativo bizantino, opaco, farraginoso, fatto apposta per consentire a manine politiche ed extrapolitiche (gli eterni burocrati) di comandare a dispetto di governi e Parlamenti, cambiando le o in e, spostando virgole, aggiungendo o levando commi. Specie se la maggioranza è un accrocco di forze diverse e spesso incompatibili e se le norme escono da Palazzo Chigi in forma di bozze o di accordi verbali. I 5Stelle, poi, dovrebbero armarsi di santa umiltà e ringraziare il Quirinale e i giornali, che una volta tanto han fatto il loro dovere segnalando ciò che non andava nella bozza del decreto fiscale e mettendoli sull’avviso: senza il no degli uffici del Colle alla depenalizzazione e le denunce di molti quotidiani (fra cui il nostro) sulle altre porcate che stava per finire sulla Gazzetta Ufficiale, ora la frittata sarebbe fatta. Allo stesso modo i giornali dovrebbero riconoscere che c’è una bella differenza fra chi tenta di far passare un maxicondono e chi lo blocca. Continuare a raccontare frottole e a nascondere i fatti che le smentiscono non fa che screditare vieppiù il ruolo prezioso della libera informazione.
Ieri Fabrizio d’Esposito ha descritto la scomparsa di una notizia fondamentale per comprendere la prima crisi giallo-verde: la bocciatura del Quirinale che ha svelato a Di Maio come il decreto fosse diverso, anzi opposto a quello concordato. Siccome questa notizia rafforza la versione pentastellata, i giornali interessati a screditare Di Maio (tutti) l’hanno rimossa. In compenso, ieri, hanno trasformato in un fatto sensazionale l’ennesima, inutile udienza del processo per falso a Virginia Raggi, accusata di aver mentito all’Anticorruzione capitolina scrivendo di aver deciso lei la promozione di Renato Marra (ufficiale dei Vigili urbani) a capo dell’ufficio Turismo, su richiesta dell’assessore Meloni e non del fratello Raffaele (all’epoca capo del Personale, poi arrestato per corruzione). Il quale, assicurò la Raggi, svolse in quella promozione un ruolo “di mera pedissequa esecuzione delle determinazioni da me assunte senza alcuna partecipazione alle fasi istruttorie di valutazione e decisionali”. Secondo il pm, invece, decise Marra imponendosi sulla sindaca.
Da mesi sfilano in Tribunale i testimoni dell’accusa e della difesa, per confermare o smentire la versione della sindaca che, se condannata, dovrebbe dimettersi: non per la legge Severino (che non prevede incompatibilità in caso di condanna per falso), ma al codice etico 5Stelle (dimissioni per tutte le condanne in primo grado, salvo reati colposi o di opinione). Abbiamo già scritto che quel codice è troppo severo e troppo lasco. Troppo severo perché, se non ci sono di mezzo tangenti, appalti truccati, abusi di potere, peculati, malversazioni di denaro pubblico o fatti ancor più gravi, ma – come in questo caso – una semplice dichiarazione, un sindaco deve proseguire fino a sentenza definitiva. Troppo lasco perché, in casi gravi per fatti già acclarati, le dimissioni devono scattare anche prima del rinvio a giudizio. Ma nel processo Raggi (unico sopravvissuto a un rosario di accuse infamanti, tutte farlocche e archiviate), nessun documento o testimonianza prova che la sindaca sia stata pilotata da Raffaele per promuovere Renato. Anzi, nei messaggi in chat, la Raggi gli ricorda di essersi opposta all’autocandidatura di Renato a comandante dei Vigili (prima fascia) per evitare conflitti d’interessi col fratello al Personale. E di averlo mandato al Turismo (terza fascia) su richiesta dell’assessore competente, che aveva lavorato bene con lui. Dopo la nomina, nell’ambito di un interpello per la rotazione di ben 190 dirigenti, la sindaca si lamenta con Raffaele per avere scoperto dai giornali che Renato avrebbe guadagnato 20 mila euro annui in più (“Questa cosa mi mette in difficoltà, me lo dovevi dire”), convinta che lo stipendio restasse invariato da quando “avevamo detto che restava dov’era con Adriano (Meloni, ndr)”. Dunque fu lei a deciderne il ruolo, non Raffaele. È dalle chat con vari dirigenti che si scopre come Raffaele si attivò con loro per la nomina del fratello. Ma che abbia sollecitato la sindaca non lo dice nessuno e non risulta da nessuna parte. Dunque non si capisce neppure perché la Raggi sia imputata.
L’altroieri la poliziotta ha dichiarato in aula che “nella procedura di interpello Marra ha avuto un ruolo attivo e sostanziale e non meramente compilativo”. Una testimonianza neutra, che riguarda l’intera rotazione dei 190 dirigenti, e non inficia minimamente la versione della Raggi: che risponde di quel che ha fatto e saputo lei, non di ciò che faceva Marra con altri. Ma il titolo di Repubblica mette in bocca all’agente una cosa che non ha mai detto: “Marra nominò suo fratello”, per poter aggiungere: “Altro colpo alla difesa di Raggi”. Invece non è né un “colpo” né un “altro”, visto che nessuno ha mai smentito la sindaca. Con buona pace del Corriere, secondo cui la poliziotta “contraddice la linea difensiva della sindaca” (invece non contraddice un bel nulla). Il Messaggero dedica un’intera pagina a questa sensazionale notizia: “Nomine, decideva Marra”. Oh bella, e chi doveva deciderle, se non il capo del Personale? Un usciere? Un netturbino? Un turista giapponese? Un gabbiano? Ecco cosa rischia chi confonde l’informazione con la curva Sud: il ridicolo.