A soli cinque mesi dalla data prevista per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, la Brexit è incagliata sugli scogli del mar d’Irlanda. La “backstop”, il meccanismo che lascerebbe l’isola irlandese senza frontiere tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord dal 2021 anche in mancanza di un accordo sull’uscita del Regno Unito, si è rivelata inattuabile. A opporsi alla backstop è soprattutto il Partito unionista democratico (Dup), l’agguerrita pattuglia di unionisti dell’Irlanda del Nord che tiene in pugno il primo ministro Theresa May. Senza il loro voto il governo May, privo di una maggioranza parlamentare, non può far nulla, tantomeno far passare al Parlamento britannico un accordo con Bruxelles percepito come avverso agli interessi degli unionisti di Belfast. Il Dup considera anatema qualsiasi differenziazione dell’Irlanda del Nord dal resto del Regno Unito. L’alternativa proposta dalla May è di mantenere l’intero Regno Unito nell’unione doganale per un periodo limitato. Al vertice Ue del 17 ottobre ha proposto di prolungare di un anno la transizione, portando la data di uscita effettiva alla fine del 2021, più di cinque anni dopo il referendum sulla Brexit.
Mantenere l’intero Regno Unito nell’unione doganale scioglierebbe d’un colpo, almeno temporaneamente, il viluppo di nodi comprendente l’accesso ai mercati finanziari europei per la City di Londra, i diritti di scalo e collegamento per le compagnie aeree britanniche, l’approvvigionamento di medicinali, l’importazione di derrate alimentari e le forniture in real time all’industria automobilistica del Regno Unito. Ma in questo momento nel Regno Unito la ragione non basta e non vale.
La nazione che ha dato al mondo la democrazia parlamentare, lo stato di diritto, la libertà di stampa e di espressione, dall’estate del 2016 è in preda a ideologia, nazionalismo e populismo. E la May, oltre a essere in pugno al Partito unionista democratico, lo è anche alla frangia euroscettica del Partito conservatore. Questa, capeggiata dai vari Boris Johnson, David Davies, Michael Gove e Jacob Rees-Mogg. Sono questi signori ad aver condotto una campagna fuorviante e menzognera per il referendum del 2016, a partire dall’infame promessa di 350 milioni di sterline alla settimana per il Nhs, il servizio sanitario nazionale. Tutti costoro si sono dileguati alle prime difficoltà, continuando però a opporsi a qualsiasi compromesso.
E quindi la Brexit slitta. Il vertice di ottobre, che avrebbe dovuto siglare l’accordo di massima sull’uscita del Regno Unito e definire il futuro rapporto con gli altri 27 dell’Ue, non è approdato a nulla. Ora si aspetta il vertice del 13 dicembre. Ma un accordo a dicembre imporrebbe una tempistica quasi impossibile per l’iter di approvazione parlamentare. Westminster chiude i battenti per le vacanze di Natale il 21 dicembre e riapre l’8 gennaio. Con la data di uscita al 19 marzo, non si capisce dove il Parlamento di Westminster troverebbe il tempo per dibattere e votare in modo informato l’eventuale accordo negoziato dalla May a Bruxelles. E forse la strategia della May è questa: ritardare il tutto fino a quando non ci sarà più tempo per un vero vaglio parlamentare e allora far passare il suo compromesso agitando il rischio di un collasso economico totale.
Il compromesso che la May ha in mente potrebbe consistere nel non vincolare il periodo di transizione a una data, ma a delle condizioni. Per esempio, a quando delle ipotetiche nuove tecnologie consentiranno di effettuare controlli doganali e fitosanitari senza bisogno di una frontiera fisica tra l’Ue e il Regno Unito. Allora e solo allora la Brexit diventerebbe effettiva.
È questa la Brexit che si farà: una Brexit fatta di mille compromessi e condizioni. Una Brexit che consentirà a Londra di salvare la faccia e uscire formalmente da quell’Ue che le ha dato quarantaquattro anni di crescita economica, stabilità e pace. Quarantaquattro anni nei quali il Regno Unito ha potuto seguitare a svolgere un ruolo di potenza geopolitica e geostrategica ben superiore alle sue oggettive capacità e peso poiché fungeva da ponte tra “l’anglosfera”, gli Stati Uniti in primis, e l’Unione europea. Ne uscirà quindi geopoliticamente indebolito, oltre al danno economico che in gran parte sta già subendo. La Brexit è una chimera, ma i suoi danni sono reali. Dal referendum dell’estate del 2016, la sterlina si è svalutata con punte del 20% rispetto al dollaro e del 15% rispetto all’euro, l’economia del Paese è bruscamente rallentata e ha ora il tasso di crescita più basso d’Europa fatta salva l’Italia, mentre gli investimenti dall’estero crescono, ma al tasso più basso da otto anni in qua.
Sebbene il Paese abbia ormai capito di aver votato contro i propri interessi al referendum, da ex impero e isola qual è non può accettare di essere pubblicamente umiliato. Anche chi al referendum aveva votato per rimanere nell’UE, adesso accetta che la Brexit s’ha da fare. Sarà, però, di nome e non di sostanza: una Brino cioè, una Brexit In Name Only. Il Regno Unito sarà fuori dall’unione doganale, ma vincolato dalle sue regole per un periodo da definire, giuridicamente indipendente ma volontariamente soggetto alla giurisprudenza della corte europea, con la questione dell’Irlanda del Nord che rischia ancora di far saltare tutto.