“Il problema è che questo impegno non è rinviabile, mi spiace, io a quell’ora sono assolutamente indisponibile”.
Nel libro: “Sicurezza e libertà” (Rizzoli), Marco Minniti racconta come disse no al dittatore libico Gheddafi
Sfoglio sempre avidamente i libri pubblicati dai politici italiani, alla ricerca di qualche bocconcino delizioso, di qualche particolare indiscreto, di qualche cedimento alla vanità (o alla vendetta fredda), comunque rivelatori “delle caratteristiche umane, antropologiche delle varie classi di governo”. Ho citato una frase di Filippo Ceccarelli, autore di una strepitosa Treccani sul potere tribale in Italia, perché lui certamente può capire come sia impossibile liberarsi da questa squisita malattia professionale. Per celebrare degnamente tali forme di feticismo compulsivo occorre innanzitutto non tralasciare pagina o capoverso alcuno del testo agognato. Poiché la pepita potrebbe celarsi, per esempio, tra le pieghe di una densa analisi sulla crisi del bipolarismo nel Terzo millennio, o negli anfratti di un meticoloso resoconto congressuale.
Con una certa incuriosita smania mi sono dunque addentrato nel Minniti pensiero. Scritto dal predecessore di Matteo Salvini al Viminale per dimostrare come il fenomeno epocale dell’immigrazione possa essere governato con gli strumenti della democrazia, senza alimentare strumentalmente la fabbrica della paura. Andavo però cercando un segno, un indizio, una traccia per immaginare il Minniti segretario del Pd, alla luce della candidatura considerata imminente. Mi chiedevo: una volta al vertice del Nazareno quale manifestazione egli darebbe di sé? Quella di un leader concavo, disposto a consumare tesori di energia e di pazienza nella mediazione tra i rissosi capataz democratici? O quella di un leader convesso, spigoloso e insofferente alle critiche, che pur di rimettere in carreggiata un partito alla deriva non farebbe sconti a nessuno? Propendiamo per quest’ultima ipotesi per due motivi.
Prima di tutto, come campione del compromesso morbido e avvolgente, Nicola Zingaretti, nel Pd, non ha avversari. Secondo poi, il Minniti che si racconta nel libro dovrebbe far riflettere sulla natura caparbia dell’uomo, in certi casi puntigliosamente tignosa (“Quando a Marco si dice di fare una cosa, è il momento che lui non la fa”: frase icona rivisitata da Maurizio Crozza). Nel 1999, avviene dunque (riassumiamo) che il sottosegretario Minniti, a Tripoli per una delicata missione per conto del governo italiano, trascorra alcuni giorni nella vana attesa di un incontro con Gheddafi, continuamente rinviato. Quando, sul punto di gettare la spugna, il capo del cerimoniale libico gli annuncia che il colonnello si è finalmente reso disponibile per quella stessa sera, il calabrese Minniti si rende conto, maledizione, che l’orario del colloquio coincide con la partita Reggina-Juventus, debutto degli amaranto in Serie A. Minniti si mostra inflessibile: “Non se ne parla proprio, io questa sera alle venti e trenta ho un impegno”. Invano i dignitari libici si dicono pronti a smuovere mari e monti pur di risolvere il problema che tanto turba il politico italiano. Ricorda Minniti: “Trascorse un tempo infinito nel quale io e l’ambasciatore sapevamo con certezza di aver mandato a monte quell’appuntamento tanto cercato”. Finché il dio del calcio si mostra in tutta la sua misericordia e, proprio al fischio d’inizio, Minniti apprende che il “Leader” lo avrebbe ricevuto nella notte. La mia ammirazione per il Minniti tifoso (il match finì 1 a 1) si accompagna a una domanda: l’uomo che disse orgogliosamente no a Gheddafi potrebbe mai tranquillamente dire sì a Franceschini e Calenda?