L’ultima fake news sulla prescrizione è che i processi non finiscono mai per colpa dei giudici, o dei pubblici ministeri. Lo raccontano gli avvocati, o meglio la loro superlobby rappresentata dalle Camere penali e da altri organismi che negli ultimi trent’anni ha piazzato i suoi uomini in Parlamento (commissione Giustizia) e al governo per sfornare leggi che hanno sistematicamente distrutto il processo penale, trasformandolo in una macchina trita-carte, anzi trita-acqua che penalizza gli innocenti e premia i colpevoli (quelli ricchi e potenti, nelle intenzioni, ma poi anche gli altri, come effetto collaterale). Per una ragione molto semplice: gli avvocati sanno benissimo che la gran parte dei loro clienti sono colpevoli (quelli che fatturano di più). Ora infatti, per protestare contro la legge Bonafede che finalmente abolisce la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, hanno deciso di dare il loro contributo (l’ennesimo) allo sveltimento dei processi proclamando quattro giorni di sciopero, paralizzando vieppiù – ove mai ve ne fosse bisogno – l’attività dei tribunali.
Citano a sproposito la Costituzione sul “diritto di difesa” (perfettamente garantito anche se la prescrizione non esistesse mai) e sulla “ragionevole durata del processo” (che oggi non è ragionevole anche grazie alla prescrizione). E ricordano che il 60% dei reati si prescrive già nella fase delle indagini preliminari, cioè nelle mani dei pm, quando l’avvocato non può far nulla né per sveltire né per rallentare, per accusare le Procure di lavorare poco o di fare “indagini infinite”. Ma è una doppia balla. I magistrati italiani, secondo le statistiche europee, sono i più produttivi per procedimenti trattati ogni anno (il quadruplo dei loro colleghi tedeschi, il doppio dei francesi ecc.). E le indagini infinite non esistono: durano per legge 6 mesi, prorogabili fino a 18 (o a 24 per i reati di criminalità organizzata). Se due reati su tre si prescrivono prima del processo è perché spesso il pm apprende di un delitto molto tempo dopo che questo è avvenuto (i reati fiscali vengono segnalati dall’Agenzia delle Entrate o dalla Guardia di Finanza 4-5 anni dopo la data dell’evasione accertata). E la prescrizione decorre non da quando il reato è stato scoperto, ma da quando è stato commesso. Dovendo scegliere quale priorità dare alle varie notizie di reato, fissati per legge, le Procure danno la precedenza a quelle che hanno buone speranze di arrivare a sentenza definitiva, o almeno provvisoria. Se il pm apprende di un’evasione fiscale di 5 anni prima, è inutile che inizi a indagare perché il reato è già prescritto.
In caso di frode (prescrizione di 7 anni e mezzo), invece, gli restano 2 anni e mezzo per fare le indagini, l’udienza preliminare e i tre gradi di giudizio: impossibile. Meglio concentrarsi sul processo per direttissima sullo scippo del giorno prima. Se davvero gli avvocati volessero combattere la prescrizione in fase d’indagine, anziché scioperare dovrebbero battersi per farla decorrere alla scoperta del reato. Non solo: se il pm ha pronta la richiesta di rinvio a giudizio, ma l’ufficio Gup del Tribunale non fissa l’udienza preliminare perché è oberato di processi, formalmente la prescrizione matura in Procura, anche se questa ha finito da tempo il suo lavoro e non ha alcuna responsabilità. Per certi reati, poi, il pm può citare direttamente a giudizio l’imputato senza passare dal gup: la sola Procura di Roma ha pronte 60mila citazioni dirette, ma deve tenerle nel cassetto perché il Tribunale riesce a smaltirne solo 12mila all’anno. Il primo vero collo di bottiglia del processo è l’udienza preliminare, il secondo il tribunale, il terzo l’appello, il quarto la Cassazione. Perché in Italia si fanno troppi processi e troppe impugnazioni. Il sistema “accusatorio” anglosassone, invocato dagli avvocati e importato in Italia dal Codice di procedura del 1990 dal loro illustre collega Giandomenico Pisapia, è lento e farraginoso. Nessuna prova, testimonianza, confessione raccolta dal pm o dagli avvocati può essere prodotta al giudice: bisogna ripetere tutto daccapo davanti al giudice nell’oralità e nel contraddittorio fra le parti (salvo che queste non vi rinuncino, e non si vede perché la difesa dovrebbe). Una procedura ipergarantista, che però allunga a dismisura i tempi dei processi, dove devono essere richiamati tutti i testimoni e, se non si presentano, l’udienza salta.
Voi direte: ma in Gran Bretagna e negli Usa si fa così. Sì, ma lì il processo accusatorio è davvero accusatorio: di norma, c’è un solo grado di giudizio (l’appello di merito è rarissimo e ancor più il terzo grado di legittimità, grazie a una serie infinita di filtri e deterrenti), dopodiché il condannato è già ritenuto colpevole e inizia subito a scontare la pena; la prescrizione non esiste, dunque nessuno ha interesse a tirare in lungo; e chi fa appello rischia di vedersi aumentare la pena). In Italia abbiamo importato l’accusatorio, ma senza rinunciare ad alcuni istituti dell’inquisitorio. Qui appellare non costa nulla, nemmeno se si ha palesemente torto e nessuna speranza di vedersi dare ragione (niente reformatio in peius sull’appello dell’imputato), e anzi conviene: serve a rinviare l’esecuzione della pena e a far decorrere la prescrizione. Così i tre gradi di giudizio, assolutamente eccezionali nel rito anglosassone, in Italia sono la regola. Il che triplica il lavoro della macchina della giustizia. Non solo: nei Paesi anglosassoni, il più delle volte non si celebra neppure il dibattimento di primo grado: la stragrande maggioranza degli imputati (il 90-95%) patteggia, per ottenere uno sconto di pena. In Italia il patteggiamento è previsto, ma lo fanno soltanto i fessi: chi non patteggia, ma si fa i tre gradi di giudizio ha ottime speranze di farla franca con la prescrizione. Sempreché sia così ricco da potersi permettere di pagare per 10 anni la parcella all’avvocato (meglio se parlamentare, così può far rinviare continuamente le udienze per i suoi legittimi impedimenti).
Chi vuol saperne di più di questa amnistia selettiva per ricchi e potenti, non ha che da studiarsi la storia dei processi a B. (l’ho riassunta qualche mese fa in B. come basta, ed. Paperfirst), finiti in prescrizione 8 volte a suon di scioperi avvocateschi, legittimi e illegittimi impedimenti, ricusazioni, istanze di rimessione, richieste di astensione e leggi ad personam. O leggersi La verità sul processo Andreotti (ed. Laterza), raccontata dagli ex pm Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte.
L’inchiesta per mafia sul 7 volte presidente del Consiglio e 19 volte ministro accusato di mafia, durò appena un anno: l’autorizzazione a procedere del Senato è del maggio 1993, la richiesta di rinvio a giudizio del maggio ’94. Il gip fissa l’udienza preliminare il 12 ottobre ’94, ma la difesa chiede sei mesi di rinvio. L’udienza parte il 1° febbraio ’95 e dura appena due mesi: il 2 aprile Andreotti va a giudizio. Il 26 settembre 1995, prima udienza del dibattimento: il Tribunale è disposto a procedere al ritmo di tre udienze alla settimana, ma la difesa chiese che una settimana al mese restasse totalmente libera. Così si persero tre udienze al mese, una trentina all’anno. Il 10 gennaio ’96 si ammalò uno dei tre giudici: sospensione per attendere che guarisse. Poi, il 10 aprile ’96, il processo ripartì da zero. Otto mesi perduti. La sentenza era prevista nel luglio ’99, ma, quando mancavano le ultime tre udienze di arringhe, gli avvocati di Andreotti aderirono all’ennesimo sciopero delle Camere penali (gli altri, dal ’95 al ’98, avevano già fatto perdere almeno 5 mesi) e tutto si bloccò. Il processo slittò a metà settembre e si chiuse il 23 ottobre ’99, con l’assoluzione per insufficienza di prove. Quattro anni per un dibattimento che sarebbe potuto durare la metà. Chissà per colpa di chi.
La sentenza di appello arrivò tre anni e mezzo dopo, il 2 maggio 2003, e ribaltò il primo verdetto dichiarando Andreotti colpevole di associazione per delinquere con Cosa Nostra fino alla primavera 1980, ma “estinto per sopraggiunta prescrizione”. Estinto quando? Meno di 5 mesi prima, nel dicembre 2002. Senza i tre scioperi degli avvocati (7 mesi persi in primo grado), Andreotti sarebbe stato condannato in appello. E la futura ministra Giulia Bongiorno sarebbe uscita dall’aula strillando “Colpevole! Colpevole! Colpevole!”. O forse se la sarebbe svignata dal retro.