Dopo le crisi di Astaldi, Condotte, Grandi Lavori Fincosit e Tecnis il settore delle costruzioni registra un nuovo default, per ora “solo” tecnico: domenica 2 dicembre la Cooperativa muratori e cementieri (Cmc) di Ravenna, dopo 117 anni, ha chiesto l’ammissione al concordato preventivo “con riserva”. Il gruppo aderente a Legacoop riconosce “l’attuale frangente di tensione finanziaria di cassa” e crede che questo sia il modo “più efficace per porre in sicurezza il patrimonio della società e tutelare tutti i portatori di interessi”.
Il 9 novembre Cmc aveva annunciato che non avrebbe pagato la rata da 10 milioni in scadenza al 15 novembre del suo bond emesso a novembre 2017, con rimborso febbraio 2023, da 325 milioni e cedola fissa al 6%. Cmc ha anche un altro bond, emesso nel luglio 2017, con rimborso ad agosto 2022, da 250 milioni di euro, con cedola al 6,875%. Entrambi i titoli, i cui corsi sono crollati alla Borsa del Lussemburgo, sono soprattutto in mano a investitori istituzionali che stanno già organizzando un comitato di creditori: ma tra gli “scottati” ci sono anche molti risparmiatori che li avevano comprati per le loro alte cedole.
Mentre gli advisor finanziari (Mediobanca e studio legale Trombone) analizzano le possibili mosse per risanare Cmc, il conto non tocca solo alle banche e agli azionisti: a tremare sono i suoi 6.900 dipendenti. Con i 10.500 di Astaldi, i 3mila di Condotte, il migliaio di Grandi Lavori Fincosit e i 500 di Tecnis la crisi colpisce 22mila addetti diretti e altre decine di migliaia nell’indotto. Secondo un’inchiesta del Sole 24 Ore, le difficoltà dei cinque operatori mettono a rischio cantieri del valore di 10 miliardi.
Alla base non ci sono tuttavia solo l’elevato rischio in Italia e in altri Paesi e l’indebitamento eccessivo: ci sono soprattutto le nuove regole. Sebbene gli stanziamenti per opere pubbliche siano cresciuti l’anno scorso del 23% e del 72% nell’ultimo triennio, la spesa reale nel 2017 è però calata del 3%. Secondo il bilancio 2017 di Cmc “sul banco degli imputati c’è il nuovo codice degli appalti che secondo l’Ance (l’Associazione delle imprese del settore, ndr), invece di rendere più veloci e trasparenti le procedure di gara nei lavori pubblici, avrebbe introdotto nuovi pesanti obblighi e appesantito quelli esistenti. Certo imporre che la gara sia la regola e la procedura negoziata l’eccezione può sicuramente complicare le cose”.
Ma tra le righe della richiesta di concordato preventivo di Grandi Lavori Fincosit emerge un’altra spiegazione: tra le cause della crisi della società è indicato “l’incremento dei tempi di definizione dei maggiori oneri sostenuti durante la fase produttiva per lavori aggiuntivi non contrattualizzati e altre cause, inseriti nei registri di contabilità quali riserve lavori, al sempre minor ricorso da parte degli enti appaltanti agli strumenti transattivi previsti dalla normativa inerente i lavori pubblici, con conseguente necessità di adire sempre più spesso le vie giudiziarie per ottenerne il riconoscimento”.
Un tecnico che chiede di restare anonimo spiega così il giro di parole: prima della riforma, le imprese di costruzioni facevano utili non tanto sull’opera appaltata ma sulle varianti (i “lavori aggiuntivi non contrattualizzati”), che progettavano da sé perché alle amministrazioni toccava solo depositare progetti di massima mentre ora devono farli di dettaglio o demandarli alle stazioni appaltanti che non sono decollate. Con la riforma, le varianti vanno ora comunicate all’Autorità nazionale anticorruzione. Risultato: su questi lavori le imprese non guadagnano più “pronta cassa” e devono fare causa ai committenti, con tutti i rischi e i tempi biblici del caso.
di Nicola Borzi