La Corte di Assise di Palermo afferma che i vertici del Ros e i loro mandanti (purtroppo occulti, ma riferibili temporalmente al primo governo di Giuliano Amato) hanno sulla coscienza gli omicidi di Borsellino e dei suoi angeli custodi. “Può ritenersi provato oltre ogni ragionevole dubbio che fu proprio l’improvvida iniziativa dei carabinieri del Ros (la trattativa con Vito Ciancimino, nda) a indurre Riina a tentare di sfruttare ai propri fini quel segnale di debolezza delle istituzioni pervenutogli dopo la strage di Capaci”, organizzando a tempo di record quella di via D’Amelio appena 57 giorni dopo. Qualcosa o qualcuno – non nella mafia, ma nello Stato – aveva urgenza di eliminare Paolo Borsellino subito. E poi di far sparire la sua agenda rossa con gli appunti sulle ultime inchieste e di depistare le indagini con falsi pentiti per sviare i sospetti dai veri colpevoli e dai loro suggeritori, affinché Borsellino fosse sepolto per sempre con le sue scoperte. Su Capaci e sulla trattativa. La Corte ricorda che i pm sostengono “che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla ‘trattativa’… trova una qualche convergenza nel fatto che, secondo quanto riferito dalla moglie Agnese, Borsellino poco prima di morire le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi”. Ma, anche se le cose non stessero così, “non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle Istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza in via D’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo”.
Ma non basta, perché dopo la cattura di Riina (15 gennaio 1993) e la mancata perquisizione del covo, sempre da parte del Ros, Cosa Nostra riparte con le stragi, mentre al ministero della Giustizia prevale la linea molle al posto di quella dura. Ebbene, quelle stragi di Roma, Firenze e Milano furono un altro frutto avvelenato e mortifero della trattativa. Senza la quale, probabilmente, non si sarebbero verificate: “La Storia non si fa con i se, ma è ferma convinzione della Corte che senza l’apertura al dialogo sollecitata ai vertici mafiosi che ha dato luogo alla minaccia al governo sotto forma di condizione per cessare la contrapposizione frontale con lo Stato, la spinta stragista di carattere vendicativo riconducibile alla volontà prevaricatrice di Riina si sarebbe inevitabilmente esaurita con l’arresto di quest’ultimo nel gennaio 1993”.
Da quando Brusca, poi Spatuzza e infine Ciancimino jr. hanno svelato la trattativa, decine di uomini delle istituzioni tirati in ballo hanno cominciato a ricordare. I giudici sottolineano le “straordinarie, inaspettate e autorevolissime conferme” giunte alle sue parole dal “tardivo ricordo da parte di alcuni protagonisti”. E giù una lunga lista di smemorati di Collegno, anzi di Palermo: le rivelazioni di Ciancimino, dal 2008, “hanno fatto recuperare la memoria a molti esponenti delle istituzioni (da Claudio Martelli a Liliana Ferraro al presidente della Commissione Antimafia Violante al ministro Conso)”.
Violante fu avvicinato nell’estate del 1992 da Mori che voleva fargli incontrare a tu per tu Vito Ciancimino. Lui rifiutò, ma si guardò bene dall’informare la Procura di Palermo. E tenne tutto per sé fino al 2009, quando gli tornò la memoria dopo le rivelazioni del figlio di don Vito. Poi ci sono i “tardivi ricordi” di Martelli, Liliana Ferraro (che prese il posto di Falcone agli Affari penali del ministero) e Fernanda Contri (capo della segreteria dell’allora premier Giuliano Amato e poi giudice costituzionale). La Ferraro, per esempio, seppe della trattativa in tempo reale da Mori e De Donno, a caccia delle “coperture politiche” chieste da Vito Ciancimino; ne informò Martelli, che la pregò di avvertire Borsellino. Ma poi, dopo via D’Amelio, si guardò bene dal parlarne a chi indagava sulla strage. Lo fece solo quando Ciancimino jr. “sfondò sui media”.
Un altro smemorato è lo scomparso ex ministro Conso, di cui i giudici segnalano “l’assolutamente evidente (e appariscente) contrasto tra le prime dichiarazioni rese all’Autorità giudiziaria nel 2002, quando il tema della ‘trattativa Stato-mafia’ non era ancora salito alla ribalta delle cronache nei termini che sarebbero deflagrati soltanto dal 2009 con le prime dichiarazioni di Massimo Ciancimino”. Peggio ancora fece l’ex presidente Scalfaro, con la sua “sorprendente testimonianza… smentita persino da Mancino”, ma anche dai suoi più stretti collaboratori e dalle agende dell’allora premier Ciampi. Fu Scalfaro all’inizio del 1993, “con l’intento di attenuare il rigore carcerario” del 41-bis ai mafiosi, a decidere la destituzione del duro Nicolò Amato alla direzione delle carceri (Dap) per rimpiazzarlo con il molle Capriotti: “Sorprende la dichiarazione resa dal presidente Scalfaro, allorché ha riferito di non sapere nulla riguardo all’avvicendamento… Va disattesa la smentita del presidente Scalfaro, che dichiarò di non sapere nulla riguardo all’avvicendamento al vertice del Dap”. Oggi il momento è propizio perché nel muro di omertà si apra qualche squarcio. Ma c’è poco tempo, prima che si richiudano le acque del Mar Rosso.