E poi dicono che la magistratura ha poco ascolto in Italia. È bastato che il Procuratore Spataro diramasse alle agenzie una fatwa sul Papiro di Artemidoro perché i giornali italiani, senza eccezioni, celebrassero la chiusura del caso, la verità che trionfa, il crimine sgominato. Nemmeno uno si è chiesto se un magistrato abbia in proprio la competenza per pronunciarsi sull’autenticità di un reperto archeologico, ignorando la comunità scientifica di riferimento e dichiarando «inutile disporre una consulenza». Da Chiasso in su, tira un’altra aria: quando Canfora, apostolo della falsità del papiro, ha ‘postato’ su papylist, la mailing list di riferimento per i papirologi di tutto il mondo, un comunicato sulla “definitiva chiusura del caso” nelle stanze della Procura torinese, Andrea Jördens, la presidente dell’Associazione internazionale dei papirologi, gli ha chiesto seccamente: “Ma che c’entra questo con la scienza?”.
Vediamo gli antefatti. Il Papiro di Artemidoro è un rotolo papiraceo emerso nel 1971 in mano al dott. Simonian (che ha venduto molti papiri alle università di Treviri, Heidelberg, e a Milano il famoso Posidippo). Come spesso accade ai papiri, il luogo di rinvenimento non è noto: in Germania arrivò entro un ammasso di cartapesta, e ne fu poi districato. È un papiro singolare, per le dimensioni (è lungo due metri e mezzo), ma soprattutto perché oltre a cinque colonne di testo greco contiene una carta geografica e due serie di disegni, di animali e di figura umana. Seppi che era sul mercato verso il 1997, e dopo i necessari accertamenti sull’autenticità e la liceità della vendita, provai ad acquistarlo per il Getty Research Institute (Los Angeles), di cui ero allora direttore. Trattativa che non si concluse perché il prezzo richiesto era assai più alto di quanto disponevo in bilancio. Intanto il grande paleografo Guglielmo Cavallo, a conoscenza del Papiro, mi mise in contatto con Claudio Gallazzi, papirologo dell’università di Milano, e questi con Bärbel Kramer, papirologa a Heidelberg. Anni dopo, convinto come ero e sono che un documento di tale importanza debba essere in una collezione pubblica, ne parlai con Giuliano Urbani, allora Ministro dei beni culturali, che ne suggerì l’acquisto alla Compagnia di San Paolo, perfezionato nel 2004. Prima dell’edizione critica (2008, 2 volumi in-4° di 700 pagine), il Papiro fu presentato in tre mostre, a Torino e poi ai Musei Egizi di Berlino e di Monaco. Un articolo di Canfora sul Corriere della sera (15 settembre 2006) ne sostenne invece la falsità, e io gli risposi il giorno dopo sulla Repubblica. Da allora parte una controversia su due binari: da un lato gli studi scientifici, centinaia in tutto il mondo, dall’altro la campagna mediatica (quasi soltanto italiana). Canfora interviene sul tema con un’intensità (qualcosa come 10 libri, 6 fascicoli di una sua rivista e 40 articoli di giornale) con cui non saprei mai scendere in gara.
Questa campagna, fortunata nei media nostrani, non ha avuto molto successo nella letteratura scientifica: dei circa 200 studiosi che se ne sono occupati, se si escludono da un lato Canfora e il suo gruppo di lavoro, dall’altro gli editori del Papiro (me compreso) e collaboratori, la stragrande maggioranza si è espressa in favore dell’autenticità. Per citare solo due grandissimi grecisti, Martin West ha definito “disingenuous” (in mala fede) l´argomentare di Canfora, e Wofgang Luppe ha scritto sull’autorevole rivista Gnomon che la genuinità del Papiro è fuori discussione. Molti aspetti del Papiro sono oggetto di dibattito scientifico: per esempio, Giambattista D’Alessio ha dimostrato che i segmenti del rotolo vanno rimontati in un ordine diverso da quello del restauro eseguito a Milano; alcuni studiosi attribuiscono tutto il testo del Papiro ad Artemidoro di Efeso, altri ritengono che sia sua solo una parte. E così via. Temi specialistici, che non mettono in dubbio l’autenticità del Papiro e la sua datazione al I secolo d.C., confermata da analisi paleografiche, fisiche e chimiche.
Ma che cosa ha da dire Spataro? Il suo documento, che accusa di truffa Simonian fondandosi su un esposto di Canfora (2013), non è una “sentenza”, come qualche giornale ha scritto, ma una richiesta di archiviazione (prontamente accolta dal Gip): visto che tutti ne parlano senza saperne nulla, invitiamo i lettori del Fatto a leggerlo on line qui: ARTEMIDORO ARCHIVIAZIONE. La struttura argomentativa è a dir poco singolare: tutto un ragionare sulle colpe dell’accusato, per poi dire all’ultima pagina che il reato (se c’era) è caduto in prescrizione da tempo. Su 34 pagine, metà sono dedicate a divagazioni (la storia della Compagnia di San Paolo dal 1563 in poi, il testo di una convenzione Unesco…) o a testimonianze su fatti che nulla hanno a che vedere con l’autenticità del Papiro. Fra i testimoni ascoltati, l’unico papirologo è Gallazzi, che ne riafferma l’autenticità. Ma in sede di conclusioni si assumono come inoppugnabili le asserzioni di Canfora (l’unico di cui si citino le opere), in quanto “sostiene motivatamente” la falsità. Spataro confessa candidamente di non aver esaminato le 700 pagine dell’edizione critica, bastandogli a quel che pare “alcune pagine, reperibili sul web, acquisite agli atti del procedimento”; né ha cognizione dell’abbondante bibliografia e degli argomenti degli studiosi che si sono pronunciati a favore dell’autenticità (basti citare solo G.B. D’Alessio). Ricorda che i Carabinieri del Nucleo Tutela del patrimonio culturale di Roma, incaricati dell’indagine, raccomandarono di “nominare un consulente scientifico ’terzo’”, ma ci rivela che lo ritenne inutile.
Con disarmante ingenuità, Spataro proclama che la foto dell’ammasso papiraceo “è risultata un clamoroso falso”, e che “tale conclusione non è più contestata”, ma cita solo l’esperto di Canfora (il vicequestore Silio Bozzi) e ignora le puntuali confutazioni del grande filologo Jürgen Hammerstaedt e degli esperti di fotografia Paolo Morello e Hans Baumann. Sposa la tesi canforiana che il Papiro sarebbe l’opera di un falsario del sec. XIX, tal Simonidis, quando poi lo svedese Tommy Wasserman, che ha studiato i papiri notoriamente falsificati dal Simonidis, lo esclude espressamente. Valorizza la testimonianza di Eleni Vassilika, già direttrice del Pelizaeus-Museum di Hildesheim, perché «fece emergere dei dubbi sull’autenticità di vari reperti lì allocati, che erano stati acquistati dal Simonian», ma tace che il tribunale tedesco si pronunciò a favore di Simonian, e la Vassilika fu allontanata dalla direzione del museo (Die Welt, 25 marzo 2004).
Per non dire di una caterva di ulteriori inesattezze, Spataro eredita poi da Canfora un approccio per così dire schizofrenico: sostiene che il Papiro è un falso, ma anche che l’Egitto dovrebbe rivendicarlo come autentico. Immagina che le illazioni di Canfora sugli inchiostri usati nel papiro siano confermate da “accertamenti tecnici recentemente disposti dal MiBAC”, per poi riconoscere una pagina dopo che “tali analisi sono ancora in corso e non è possibile prevederne l’ulteriore durata”. E ignora i risultati delle analisi pubblicate da Pier Andrea Mandò ed altri su riviste scientifiche internazionali, che vanno in direzione opposta a quanto asserito da Canfora. È sulla base di questo zoppicante argomentare che Spataro si è convinto che ogni perizia è inutile, poiché «la certezza del fatto è abbondantemente provata, quanto meno sulla base di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti». Ma tali indizi che provano la certezza di un fatto erano davvero abbastanza per non consultare esperti, per ignorare la letteratura scientifica, per non ascoltare nemmeno Simonian, accusato di truffa? Ed era proprio inevitabile far scattare i termini della prescrizione, impedendo così al Simonian di poter chiedere una perizia di parte? Emettendo di fatto, al riparo della prescrizione, un giudizio di colpevolezza senza ascoltare pareri terzi?
Insomma, il documento Spataro non aggiunge nulla a quel che si sapeva sul Papiro, e adotta l’opinione di un solo studioso ignorando quasi tutta la bibliografia scientifica. Eppure è su questa base che molti hanno scritto sui giornali con vari gradi di stoltezza, dalla superficialità del “sentito dire” all’abiezione di chi emette condanne morali fondandosi su un testo che non ha letto e su dati inesistenti. O, peggio ancora, fingendo di scambiare un pronunciamento di tal fatta per un meditato giudizio scientifico. È inquietante che gli organi di informazione italiani in coro abbiano fatto da cassa di risonanza a questa non-notizia, senza che si sia sentita la necessità di verificare di cosa si stesse in effetti parlando. Quanto al dott. Spataro, se con la sua dissertazione aspira a una laurea in papirologia, la sentenza è questa: bocciato.