Se in Italia si nasce incendiari e si muore pompieri, a Bruxelles si nasce invece eurodeputati (o euroburocrati) e si muore lobbisti. A raccontarcelo è una bella ricerca di Transparency International che spiega come il 50 per cento degli ex commissari europei usciti di scena con le elezioni del 2014 lavori ora per gruppi economici portatori d’interessi. E come lo stesso faccia il 30 per cento dei 171 ex parlamentari che con la nuova legislatura hanno dovuto trovarsi un impiego. Il fenomeno che, come vedremo, coinvolge pure centinaia e centinaia di ex funzionari dell’Unione europea, spiega bene perché nel corso degli anni la fiducia nelle decisioni prese dall’Europa sia verticalmente calata.
Accanto alla crisi economica, gli elettori devono fare i conti con un problema di credibilità personale degli uomini e delle donne che rappresentano le istituzioni Ue. Il caso più clamoroso, come scrive Sofia Basso sul numero di FQ Millennium in edicola, riguarda José Manuel Barroso, il predecessore di Jean Claude Juncker alla testa della Commissione, che a soli 20 mesi dalla fine del suo incarico ha accettato la presidenza non esecutiva della filiale europea di Goldman Sachs. E nel 2017 si è ritrovato a incontrare nelle vesti di lobbista della banca d’affari americana, il vicepresidente della Commissione, Jyrki Katanen. Un episodio opaco che, al di là delle giustificazioni dei protagonisti, ha mandato su tutte le furie Kelly O’Reilli, l’Ombudsman europeo.
Nulla però al confronto di quanto ha combinato Neelie Kroes, ex Commissario per la Concorrenza e per l’Agenda digitale. Oggi fa la consulente per Bank of America e Uber, mentre i Bahamas Leaks hanno svelato come Kroes avesse interessi (non dichiarati, come invece prevedevano le norme) in una società energetica off shore. Ha cambiato mestiere anche Jonathan Hill, già Commissario per la Stabilità finanziaria dell’esecutivo Juncker. Da qualche mese, dopo il voto sulla Brexit, il barone inglese ha molti incarichi in multinazionali, comprese consulenze per Ubs (proprio per gestire l’uscita del Regno Unito dall’Unione) e la società di revisione Deloitte.
Una coalizione di 200 diverse Ong, l’Alliance for lobbying transparency, ha invece lavorato sulle carriere dei funzionari della Ue e ha scoperto che dal 2008 a oggi, quattro ex direttori della Stabilità finanziaria sono stati messi sotto contratto dalle aziende che dovevano controllare, mentre circa mille esperti dell’Ema, l’Agenzia del farmaco europea, hanno interessi diretti o indiretti nell’industria farmaceutica. Ma non basta. Perché su 33 lobbisti arruolati dalle prime dieci aziende produttrici di armi, un terzo risulta aver prima lavorato per un’istituzione Ue.
Ora, al di là dei dati statistici e delle norme che rendono perfettamente legale il fenomeno (nei corridoi della Ue si aggirano 30 mila lobbisti pagati per influenzare la politica), c’è da chiedersi se tutto questo sia compatibile con la democrazia. Questa rubrica ha sempre sostenuto con forza la necessità di regolamentare con rigore il fenomeno. E bisogna pure ammettere che negli ultimi anni a Bruxelles qualche passo avanti è stato fatto. La verità, però, è che in questo campo, l’unica garanzia per i cittadini è rappresentata dall’informazione. Finché i grandi gruppi editoriali non seguiranno le vicende Ue con lo stesso livello di approfondimento riservato ai rispettivi Parlamenti nazionali, nell’oscurità si muoverà di tutto. E, come accade oggi, molte decisioni verranno prese in favore delle lobby più forti (e più ricche) a scapito degli elettori.