Ieri la commissione parlamentare Antimafia s’è riunita per verificare se vi siano state falle nella tutela di Marcello Bruzzese – fratello di Girolamo, collaboratore di giustizia – ucciso da due killer a Pesaro nel pomeriggio di Natale.
Sottosegretario Luigi Gaetti, lei è intervenuto in qualità di Presidente della Commissione Centrale per la definizione e applicazione delle speciali misure di protezione. Lo Stato ha sbagliato in qualcosa?
Su questo, alla luce di quanto è accaduto, non possiamo avere dubbi.
Quali errori sono stati fatti?
Il fatto che Marcello Bruzzese avesse esposto il suo cognome sul citofono è di per sé indicativo di una responsabilità da parte dello Stato: qualcuno avrebbe dovuto controllare la sua violazione del regolamento, che gli imponeva di non farlo. Ma non è avvenuto.
Su questo c’è stata anche una responsabilità della vittima.
Per ora parlerei di una responsabilità al cinquanta per cento: un controllo carente da parte dello Stato e una responsabilità per aver violato il regolamento. Saranno le indagini poi a stabilire se e quanto, questa inefficienza, sia stata determinante e in quale misura. Di certo il controllo su questo punto è stato carente.
A chi spettava il controllo?
Toccava ai Nop, i nuclei operativi di protezione, e ai Carabinieri che svolgevano la vigilanza dinamica. Va detto che non si tratta in generale di un compito semplice. Gestiamo 1.185 collaboratori più 4.538 congiunti, ai quali vanno aggiunti 51 testimoni di giustizia più 205 familiari. Nel caso specifico, la numerosità dei fratelli, parliamo di sei nuclei familiari, ha creato difficoltà di gestione. Resta il fatto che qualcuno avrebbe dovuto accorgersene, controllare e risolvere il problema.
A parte questo dato sono emerse, da parte del servizio centrale, altre carenze nei controlli?
Se guardiamo alle procedure, no. Abbiamo verificato – per la parte che ci riguarda – che il livello standard, quello prestabilito, è stato rispettato. C’è da chiedersi se il livello standard è sempre sufficiente.
In che senso?
Il processo in cui il collaboratore aveva testimoniato, cosiddetto processo Crea, s’è concluso nel 2017 con condanne pesanti. Sappiamo che in questi casi può aumentare la recrudescenza delle reazioni. D’altro canto, se negli anni scorsi la vittima aveva chiesto di uscire dal programma di protezione, e il sistema non ne ha consentito la fuoriuscita, vuol dire che era ritenuto a rischio. Visto quel che è accaduto, non possiamo dire che lo Stato abbia agito alla perfezione, i controlli non stati fatti in maniera puntuale, sono risultati insufficienti, per quanto rispondano agli standard.
Aveva documenti di copertura?
Li ha avuti dal 2006 al 2009.
E dopo?
Poiché non permettono di concludere atti di proprietà o perfezionare alcune situazioni lavorative, come per l’Inps, non sono stati più richiesti.
La vittima aveva chiesto un cambio di generalità?
Non ci risultano richieste. Suo fratello l’aveva chiesta per i figli. Non è stata disposta, perché o si estende a tutto il nucleo familiare oppure non si può concedere.
Marcello Bruzzese aveva comunicato recentemente al servizio centrale di avere qualche problema?
Non ci risulta.
Cambierà qualcosa nella gestione dei collaboratori?
Le leggi attuali vanno migliorate: semplificheremo presto con un decreto l’accesso al cambio di generalità. Però non bisogna dimenticare che per ogni collaboratore viene inserito un numero consistente di familiari, che spesso soffrono le limitazioni della libertà. È importante che servizio centrale protezione e Procura intervengano per consolidare la loro consapevolezza, se vogliono accettare la protezione devono comportarsi di conseguenza, a patto che lo Stato faccia il suo con dei benefici che compensino le rinunce e assicurino una protezione che in questo caso, purtroppo, non è stata sufficiente.