Basta che funzioni: come il titolo del film di Woody Allen questa è (o dovrebbe essere) la vera misura della politica. Perciò, nel tendere la mano ai gilet gialli francesi, più che della deprecata ruspa che sfonda i portoni di Macron, Luigi Di Maio dovrebbe preoccuparsi di Jacline Mouraud, la “pasionaria” ex portavoce dell’ala moderata del movimento che ha snobbato il vicepremier, accusato di “ingerenza negli affari interni del nostro Paese”. Mentre altri due esponenti della galassia gialla, Eric Drouet e Ingrid Levavasseur, hanno ringraziato per la mano tesa loro dall’Italia.
Detto che la cautela non sembra tra le qualità di spicco del personaggio (l’impeachment di Mattarella annunciato e ritirato, la fine della povertà celebrata dal balcone di palazzo Chigi), forse il capo politico dei Cinque stelle ha cercato, sul momento, di annettersi la valenza simbolica della ribellione (e quella cromatica: gialli loro, gialli noi). Visto che l’estrema frammentazione di quella piazza in subbuglio la rende abbastanza inafferrabile, oltre che intrattabile. Diciamo allora che come spot diretto al cuore dell’ala movimentista grillina potrebbe funzionare. Alessandro Di Battista, per capirci, avrà sicuramente apprezzato tanto più che la svolta dei gilet è maturata subito dopo il suo rientro dall’America Latina nell’incontro di Moena con il gemello politico. Ma i Cinque stelle che orgogliosamente rivendicano di essere “né di destra né di sinistra”, in realtà lo sono. Di destra e di sinistra, ma anche di centro (e forse anche, se servisse, di sopra e di sotto).
Parliamo non certo di antiche matrici ideologiche o culturali, probabilmente sconosciute all’alfabeto del pianeta stellato, quanto di valori di riferimento. A sinistra, i gilet rossi di Roberto Fico: accoglienti, solidali e antifascisti. Al centro, i gilet bianchi di Giuseppe Conte: pragmatici, ammanicati ed europeisti. A destra, i gilet verdi di Danilo Toninelli: sovranisti e salvinisti. E poi i gilet arcobaleno: NoTav, antindustriali e terzomondisti. E così via in una serie di articolazioni che coprono l’intero ventaglio dell’interesse pubblico non rappresentato, se non nel database della piattaforma Rousseau. Una varietà di posizioni che rivolgendosi ad elettorati diversi (delusi dal Pd, dalla destra, astensionisti) può non subire in maniera determinante il peso delle eventuali contraddizioni, a meno che non si vada a toccare il totem dell’onestà, onestà. Un’offerta qualitativamente diversa da quella leghista, che si rivolge a un voto più compatto ma nella sostanza unidirezionale – la lotta all’immigrazione – e ultralideristico, assorbito com’è dalla persona del “capitano”. E dunque più esposto al consumarsi dell’una e dell’altro.
Basta che funzioni. Più che dai gilet gialli, e dagli incontri con polacchi, finlandesi e croati per la formazione di una famiglia europea della “democrazia diretta” (come anticipato da Di Maio al nostro Luca De Carolis), il successo dei Cinque stelle si giocherà, più di altri, sulle candidature. Nomi che per forza di cose dovranno essere di forte richiamo e di comprovata capacità comunicativa. Un profilo che si attaglia a quello di Di Battista, quando si tratterà di scegliere l’attaccante di sfondamento. Senza contare gli incarichi nella nuova Commissione europea, nella quale il M5S potrebbe avere un ruolo non secondario. Ma forse corriamo troppo.