Il primo round porta la data di mercoledì mattina. Quando ha visto arrivare Nicola Morra davanti alla buvette del Senato, il gruppo di colleghi della Giunta per le autorizzazioni di palazzo Madama lo ha affrontato a muso duro: “Ci hai fatto passare per traditori!”, lo hanno attaccato, convinti (a torto) che i retroscena sull’assemblea di martedì mattina – quelli che hanno fatto titolare al Fatto “Mezzo M5S parla come B.” – fossero farina del suo sacco.
Non ci stanno, loro che sono avvocati e professori, a finire nel calderone di chi pensa di salvare Matteo Salvini dal processo solo per opportunità politica. Dicono che il loro è stato un contributo “alto, giuridico” e che non doveva finire svilito così. Ma se fino a quarantotto ore fa la questione era rimasta nelle discussioni tra “tecnici”, ieri la faccenda si è fatta politica. E quando Morra (“Ancora! Visto che avevamo ragione?!”), sempre al Fatto, ha deciso di tirare l’affondo sul “dna” del Movimento, è venuto giù tutto.
L’unico a parlare in chiaro, va detto, è Mario Giarrusso. Ma lo fa davanti alle telecamere de La7 e per di più a nome dei membri della Giunta, visto che è il loro capogruppo. Contro Morra ha parole di fuoco: “Capisco che chi è laureato in Filosofia ed è digiuno di diritto non distingua l’articolo 68 della Costituzione dall’articolo 96 – dice Giarrusso – Io sono un avvocato e riesco bene a capire la differenza, dobbiamo avere la capacità di spiegarlo, come hanno fatto Conte e Di Maio. Poi ognuno si prende la responsabilità delle cose che dice”.
In estrema sintesi, per chi se lo fosse perso, sulle pagine del nostro giornale Morra ha sostenuto che “chi è nel palazzo non può godere di un trattamento differente” e che “la magistratura non può essere considerata un plotone di esecuzione”. La sua linea, condivisa con una pattuglia non troppo folta di parlamentari, è per il Sì al Tribunale dei ministri, che chiede l’autorizzazione per mandare a giudizio il ministro dell’Interno. Una tesi che si scontra con la riflessione, decisamente più diffusa all’interno del M5S, secondo cui il caso Diciotti è un unicum e dunque non può essere paragonato a quelle immunità a cui i Cinque Stelle hanno sempre detto “no”.
Così, ieri, quello a finire sotto processo è stato proprio Morra. “Ha detto quelle cose? Quindi si dimette dall’Antimafia?”. Il pensiero è binario, ma assai comune tra i parlamentari del Movimento: dell’humus grillino a cui si è richiamato il senatore calabrese, è rimasta di certo la collera contro “le poltrone”, mai sopita, neanche adesso che ci siedono loro.
Dunque, la carica di presidente di una delle commissioni parlamentari più prestigiose diventa l’arma da brandire contro chi ha detto cose che, ad essere sinceri, un tempo sarebbero state quasi derubricate a banalità. E poi non sono mancate, nel Movimento, le voci di chi ha voluto ricordare che Morra è deluso perché non è passata la nomina di Marcello Minenna alla Consob, di cui lui era sostenitore. E nemmeno quelle di chi considera l’intervista di Morra un attacco alla leadership di Luigi Di Maio. E ancora quelle di chi sostiene che se Morra avesse davvero ritenuto così grave il “sequestro di persona” commesso da Salvini con la Diciotti, avrebbe potuto parlare allora, ad agosto: “Ma non l’ha fatto perché stava facendo la guerra a Giarrusso (il suo sfidante interno, ndr) per la presidenza dell’Antimafia e non si voleva azzoppare”. C’è anche chi lo difende, sia chiaro. Ma sono pochi, molto pochi. E non si fanno sentire.