“Questi quando scendono portano la morte sulle spalle… credimi… quando arrivano è finita”. Due anni, dal 2014 al 2016, e 60 “caduti”, tutti giovanissimi. È la “paranza dei bambini”, nome consacrato dal libro di Roberto Saviano (e dall’omonimo film che il 12 febbraio verrà presentato al Festival di Berlino): grilletti facili, abituati a far fuoco tra la folla, a sparare per sentirsi importanti. Una paranza che da Forcella si insinua nei Decumani, e scende giù fino ai Tribunali e a Porta Capuana. Il ventre molle di Napoli, la periferia nel centro, tra turisti che di giorno riempiono le strade, e gente che di notte si rintana nei bassi trasformati in nuove piazze di spaccio di droga, il vero carburante capace di far girare il motore della mattanza.
Dicono che siano quasi venti i ragazzi che aspirano a emulare oggi Emanuele Sibillo. E che le “fibrillazioni” che nelle ultime settimane si stanno registrando nel cuore di Napoli, tra stese e bombe in esercizi commerciali più o meno famosi, non siano altro che assestamenti convulsi dovuti ai movimenti dei giovanissimi – gruppi dello stesso clan, o rivali – che si frastagliano, si parcellizzano, si spostano rapidamente da un fronte a un altro, come tante piccole formiche. Complici i sempre mutevoli equilibri criminali, quelli delle grandi famiglie che, nell’ombra, continuano a contendersi la città. Oggi come cinque anni fa.
In questi giorni gli inquirenti – i pm Francesco De Falco e Celeste Carrano, nel pool guidato da Giuseppe Borrelli, sotto la regia del Procuratore capo Giovanni Melillo – stanno freneticamente raccogliendo decine e decine di prove, indizi, dichiarazioni, conversazioni intercettate. Lo schema, ancora una volta, sembra ripetersi: la paranza come propaggine dei grandi cartelli mafiosi, delle grandi famiglie della camorra cittadina, dai Contini ai Licciardi, storicamente ostili ai Mazzarella, il gruppo che non ha mai smesso, nemmeno negli anni in cui i capifamiglia sono finiti in carcere, di voler controllare il centro di Napoli. I clan storici, si legge in una delle ultime relazioni della Direzione investigativa antimafia, “limitando il ricorso ad azioni violente, lascerebbero la gestione delle attività esecutive a gruppi satellite, per dedicarsi ad attività criminali di più alto profilo, quali il riciclaggio e il re-impiego di denaro di provenienza illecita”. Ai bimbi sono state lasciate negli anni le piazze di spaccio, da piazza Bellini a Forcella. Ai boss, invece, il monopolio del racket, da riscuotere sul territorio sempre attraverso nuove alleanze, giovani piscitielli, cavalli più o meno grandi su cui puntare, “basta che abbiano la mano ferma per sparare”.
Ai tempi di Emanuele Sibillo, le estorsioni si facevano soprattutto agli ambulanti della Maddalena, con le loro bancarelle di borse e scarpe contraffatte (il business del mercato delle griffe false assicura alla camorra introiti fino a 20 milioni all’anno), alle prostitute e ai parcheggiatori abusivi di Porta Nolana, alle pizzerie di via dei Tribunali. Oggi c’è da aggiungere al conto un centro storico che è passato da 1 a 4 milioni di turisti annui, con le friggitorie e pizzerie che prendono il posto delle piccole botteghe storiche (per uno spazio commerciale su strada, da 40-45 mq, qui si paga d’affitto 5mila euro al mese) e almeno 200 nuovi bed&breakfast che stanno gentrificando i vicoli popolari.
Tutto era sembrato iniziare nel mese di luglio di qualche anno fa. A pochi metri dal Duomo, dalla strada dei presepi e dal Cristo velato, in via Oronzio Costa muore, colpito da un proiettile alla schiena, il 19enne Emanuele Sibillo, barba da jihadista e occhiali neri. Era il 2 luglio 2015. Le strade dei Decumani sono ancora oggi piene di scritte sui muri “F.S.”, Famiglia Sibillo. I ragazzini 15enni si tagliano i capelli come ‘Manuè e si tatuano il numero 17, nel nuovo gergo in cui a ogni numero (17) corrisponde una lettera dell’alfabeto (S come Sibillo): ovvero si stampano sulla pelle l’ammirazione, il rispetto, e l’appartenenza a Emanuele che “era uno di noi, uno dei ragazzi del centro storico che ha portato in alto il nostro quartiere e ha scacciato il tumore”. Il tumore era ed è, oggi come quarant’anni fa, la famiglia Mazzarella.
Emanuele, da latitante, erano giorni che andava a sparare in via Oronzio Costa, in quello che è stato soprannominato “il vico della morte”. Sparava contro il portone dei Buonerba, un altro gruppo di ragazzini che, appoggiati dai Mazzarella, si stavano di nuovo allargando nel quartiere e che si erano messi in testa di “fargliela pagare a ‘sti scampati dei Sibillo – si ascolta nelle intercettazioni – fino ad adesso hanno mangiato loro, ora dobbiamo tornare a mangiare noi”. È così che vengono decisi a tavolino spedizioni punitive, stese coi motorini, omicidi, vendette. Con quella “spregiudicatezza criminale e la breve sopravvivenza” che caratterizza, secondo i magistrati, il fenomeno della paranza: “Piccoli eserciti di ragazzi sbandati – si legge nelle carte – senza una vera e propria identità storico-criminale che, da anonimi delinquenti, si sono impadroniti del territorio attraverso una quotidiana violenza, utilizzata come affermazione e assoggettamento ma, anche, sfida verso gli avversari”.
Ed è così che si compie il destino obbligato che hanno davanti. “Tu hai solo due strade, o Poggioreale o morte”. Basta guardarli i protagonisti, quelli veri, della paranza dei bimbi: tutti nati negli anni ‘90 e, che si chiamino Sibillo o Buonerba, tutti in carcere o al cimitero.
Come gli jihadisti, i “babyboss” hanno un rapporto con la morte del tutto particolare: sembrano cercarla mentre la danno. E chi cerca la morte, o si fa accompagnare da essa come un’ombra – lo si può leggere, per le prime condanne alla paranza dei bambini, nelle motivazioni dell’allora giudice Nicola Quatrano –, non ha niente da negoziare: solo da distruggere. Come per ‘o Nannone, Antonio Napolitano. Quando viene arrestato nel 2015, a 18 anni appena compiuti, la Squadra Mobile di Napoli lo trova a casa con un fucile sotto il letto. Fisico esile e brufoli in viso, era un killer spietato, braccio destro di Emanuele Sibillo. I rivali – intercettati – del Nannone dicevano: “Quello viene qui sotto con la pistola in mano. Gli abbiamo piazzato tre colpi e non è morto. Tu ci puoi provare pure per altri dieci giorni, ma quello non muore”.
Scriveva Pier Paolo Pasolini: “Per prima cosa ti insegnano la rinuncia. La seconda cosa è una certa obbligatoria tendenza all’infelicità. La terza cosa che ti viene insegnata dai ‘destinati a morire’ è la retorica della bruttezza. Non hanno certo gioventù splendenti. E tu, invece, splendi”.
Lavorare a questo film, ha raccontato Roberto Saviano, ha significato entrare nel cuore e nella vita di chi oggi ha 14, 15, 16 anni e un unico imperativo: trovare un posto nel mondo. “Ma tutti gli strumenti utili per raggiungerlo spesso sono preclusi. Ti prendi quello che vuoi o finisci qui. Rischi tutto o non sei nessuno. Ora immaginate questo: tutte le ansie del tempo solitario e feroce che stiamo vivendo, affrontate ed esorcizzate facendo soldi, facendoli subito, con il narcotraffico e con le pistole”. E vi ritroverete, chiusi un po’ gli occhi, a percorrere il Decumano inferiore, Spaccanapoli, fino a Forcella. Nella selvaggia durezza dei vicoli che contrasta all’improvviso la soavità dei volti di Madonne e Bambini, Vergini e Martiri che troverete tra le nicchie nei muri. Qui, il mare non bagna Napoli. Vi ritroverete al vicolo del Sole, detto così perché il sole non vi entra mai; o al vicolo del Settimo Cielo, per l’altitudine di un pezzettino di cielo che appare fra le case. Tra i balconi coi panni stesi, i carretti con la verdura, le urla che riempiono l’aria.
A Forcella, si diceva una volta, si spara con la stessa frequenza con cui si estrae la molletta. Era così ai tempi dei fratelli Giuliano e di Lovegino. È così ai tempi di Emanuele Sibillo e della sua paranza. È e resterà così. Chissà.