Se fossi il capo politico dei Cinquestelle (per loro fortuna non lo sono) dopo il voto in Abruzzo mi segnerei su un foglietto tre numeri. Il primo: 19,7% è quasi la metà di quel 40% raccolto dal Movimento alle Politiche di undici mesi fa. Non starei ad ascoltare i soliti che (per difendere la cadrega o per banale ruffianeria) stanno lì a ripetere che il M5S nelle Amministrative cala sempre (come se fosse un vanto). Invece, mi farei qualche domanda su quel 20 per cento che non c’è più. Chi erano? Perché li abbiamo delusi? Come possiamo recuperarli? In attesa di analisi più specifiche, mi fiderei del buon senso della politica che mi dice: chiedevano stabilità, gli abbiamo dato i Gilet gialli. Andrei a rileggere ciò che alcuni osservatori avevano scritto quando tutto sembrava andare per il meglio. Attenzione che nel vostro voto trasversale lo zoccolo duro è rappresentato sicuramente dai grillini doc, cresciuti nel fuoco dell’opposizione. Ai quali il 4 marzo si è aggiunto un robusto elettorato d’opinione, deluso soprattutto dal Pd e dunque abbastanza volatile che chiedeva capacità di governo, oltre che un impulso alla crescita e la lotta alle diseguaglianze. Gente normale a cui poco o nulla importa della piattaforma Rousseau, ma che deve fare i conti con le bollette e il mutuo della casa mentre i figli non riescono a trovare lavoro. Visto che non si è riusciti ad abolire, così su due piedi, la povertà, si è spiegato loro che la colpa era tutta di Macron e del franco coloniale. Poi ci siamo voltati e non c’erano più.
Il secondo numero da evidenziare è: 27,5%. È quanto la Lega ha ottenuto domenica, come primo partito e nucleo forte del centrodestra che ha eletto il nuovo presidente, Marco Marsilio, sfiorando la maggioranza assoluta. Questo dato è inferiore al 32% accreditato a livello nazionale dai sondaggi, ma di circa dieci punti superiore al risultato ottenuto il 4 marzo dal partito di Matteo Salvini. Ovvero, l’Abruzzo è il laboratorio regionale di un fenomeno che già alle Europee di fine maggio potrebbe interessare l’intera nazione. L’alleanza tra due forze che ne danneggia una e ne avvantaggia l’altra, a spese della prima. Un caso forse unico di autolesionismo e vampirismo consenziente, sottoscritto sulla base di un Contratto del Cambiamento più adatto a un torbido gioco tra il marchese de Sade e Leopold von Sacher-Masoch che a un’intesa di governo. E dove il supremo sacrificio dei Cinquestelle si realizzerà, come tutto lascia credere, con il voto del Senato per salvare Salvini dal processo per la vicenda della nave Diciotti. Del resto, Conte, Di Maio e Toninelli hanno già offerto il loro sangue all’alleato assumendosi la responsabilità collettiva dell’accaduto. Neanche Dracula presidente dell’Avis avrebbe sperato tanto. Salvini magnanimo non infierisce sulla sconfitta del socio. Che anzi, visti gli eccellenti risultati, incoraggia a proseguire nella comune attività di governo. Alle sue condizioni, ovvio: autonomie, legittima difesa, riforma fiscale (e forse, dai, un altro sforzo per rimettere sui binari il Tav Torino-Lione). Finché il Capitano giudicherà i tempi maturi per dare l’assalto, da solo, a Palazzo Chigi.
Il terzo numero abruzzese da non dimenticare è: 31,3%. È il risultato ottenuto dal candidato Pd, Giovanni Legnini, alla testa di un’ammucchiata di centrosinistra. Che non gli ha consentito di assicurarsi la poltrona di presidente ma di superare in tromba il M5S questo sì. Che per il Nazareno e dintorni oggi vale quasi come un successo. Se io fossi il capo politico dei Cinquestelle, perciò, da oggi in avanti userei un pizzico di prudenza nel considerare defunti i Democratici. Che restano messi maluccio, ma che di fronte al tonfo delle stelle si sentono un tantino meglio.