Sembra un paradosso eppure l’attuale “innovazione” fa aumentare il totale delle nostre ore di lavoro. Negli Usa, dove c’è la massima meccanizzazione, da vent’anni si lavora di più, non di meno. Altro che La fine del lavoro (il best-seller del 1995 di Jeremy Rifkin). Da sempre, le macchine riducono certe ore di lavoro, ma ne aumentano altre. Le nuove macchine della rivoluzione industriale raddoppiarono il carico di lavoro individuale (rispetto a quello dei lavori agricoli) e aumentò il carico complessivo, arruolando donne e bambini. Nel secolo successivo il carico di lavoro si dimezzò soprattutto grazie alle lotte e alle leggi sociali, non alle macchine.
Oggi il lavoro risparmiato dalle nuove macchine è compensato dal lavoro per produrre nuovi beni materiali e immateriali e dagli stimoli del marketing per produrre nuovi bisogni. L’effetto netto non dipende allora dai robot ma dal costrutto sociale: contrattazione, legislazione e tariffe del lavoro, marketing e pubblicità, bambini consumatori, più single e meno famiglie, prescrizioni religiose di riposo.
L’ “innovazione” è sempre metà tecnica e metà sociale. Da millenni l’innovazione tecnica ci fa produrre un chilo di pane con sempre meno lavoro. L’innovazione sociale, però, ci induce a spendere in ogni giornata meno soldi per il pane, e più soldi, per esempio, per il digitale (dispositivi, infrastrutture, software, connessione)
Tuttavia, mentre il consumo di pane è saturabile, quello di beni digitali “immateriali” non lo è. Il consumo di pane, inoltre, non è gonfiato da pubblicità e marketing. Non ci sono psicologi e ingegneri che escogitano come farci consumare sempre più pane. E nessuno mangia più pane per moltiplicare i contatti sociali o per giocare. Tutto ciò accade invece per i beni digitali
L’enorme mole di lavoro dei manovali digitali è sottovalutata. Milioni di nuovi dannati della Terra son pagati una miseria per cliccare giorno e notte like, follow e share. Altri sono pagati per lavorare alla tastiera per cercare di insegnare alla “intelligenza artificiale” a essere intelligente. Inoltre, i due miliardi di manovali digitali non pagati (la vera forza lavoro) siamo noi user. Con le nostre corvée alla tastiera facciamo guadagnare due volte i padroni digitali: la prima, lavorando gratis, la seconda come bersagli della pubblicità realizzata col nostro lavoro.
Ogni clic e bit che attraversa lo spazio consuma materia. Sempre più bit e apparati necessari a muoverli per il mondo consumano energia prevalentemente atomica e fossile (tonnellate di uranio radioattivo e milioni di tonnellate di carbone). Anche queste richiedono più lavoro. E ancora di più ne richiedono i materiali per cellulari, computer e infrastrutture digitali. Questo processo richiede più lavoro anche perché l’obsolescenza programmata dei prodotti è sempre più veloce.
Il telefono dei nostri genitori fu usato per cinquant’anni, quello dei nostri figli deve diventare obsoleto in un anno. Per accelerare il ricambio di ogni cosa (non solo dei dispositivi digitali) occorre il crescente lavoro di milioni di pubblicitari. Tutte queste attività richiedono un volume di lavoro crescente e probabilmente più grande di quello risparmiato dai sinistri robot.
Al lavoro monetizzato, vanno aggiunti gli Ikea-work, ossia i lavori che prima erano pagati e ora svolgiamo gratis: montarci i mobili Ikea, scannerizzare i prodotti al supermercato, fare benzina. Anche queste ore di lavoro aumentano, ma non sono occupazione e non compaiono nelle statistiche che “vedono” solo il lavoro monetizzato.
Nel libro En attendant les robots. Enquête sur le travail du clic (2019) Antonio Casilli smonta lo scenario dei “robot che rubano il lavoro”. Il libro più utile però, è La teoria della classe agiata (1899) di Thorstein Veblen. Il grande economista eterodosso descrisse il fenomeno del consumo ostentativo e notò che i crescenti consumi delle élite erano per beni posizionali, acquisiti soltanto per compararsi con gli altri. Oggi però l’innovazione socio-tecnica permette a miliardi di persone di essere “classe agiata”.
Un limite ai consumi dovrebbe essere il potere d’acquisto dei cittadini. Tuttavia, negli Usa, e presto nel resto del mondo, questo limite è relativo. Lo statunitense medio ha una decina di carte di credito. Con l’una molti pagano i debiti dell’altra, spesso per comprare cose di cui non hanno bisogno con soldi che non hanno. Il comprare a debito, esasperato negli Usa, si diffonde altrove e permette a miliardi di persone di comprare più beni di quelli che si possono permettere, la cui produzione richiede più lavoro.
Il numero di ore di lavoro individuale e complessivo non dipenderà dalla innovazione tecnica, che non è una fatalità inevitabile come i terremoti. Dipenderà invece, come negli ultimi cento anni, da come decideremo di regolare il lavoro con la politica e con i lavoratori organizzati. E dipenderà soprattutto dall’aumento o dalla diminuzione della nostra propensione a consumare, produrre e lavorare di più, a scapito della qualità della nostra vita e dell’ambiente globale.
*Docente di politiche ambientali al Politecnico federale di Zurigo (ETH)