Nell’ottobre del 1978 i lavoratori di Fiat Brasile stavano preparando il loro primo sciopero. In Sudamerica l’azienda automobilistica italiana avrebbe conosciuto in seguito il suo maggior successo: oggi vengono prodotte più auto col marchio Fiat in Brasile che in qualsiasi altro paese, oltre all’Italia, e nel Paese sono al terzo posto come diffusione. Ma 40 anni fa, mentre la Fiat stava portando avanti l’operazione d’ingresso nel mercato brasiliano, cominciavano i primi problemi: nella fabbrica Fiat dello stato brasiliano di Minas Gerais i lavoratori, temendo la repressione, si stavano organizzando in segreto. I militari, che avevano preso il potere con il colpo di stato del 1964, contrastavano ogni organizzazione operaia, anche con la violenza. A sei giorni dallo sciopero, Airton Reis de Carvalho, il capo del distretto di polizia locale, inviava una lettera al regime. Un operaio Fiat stava da ore davanti alla stazione di polizia, cercando di individuare e liberare un collega arrestato e considerato indispensabile per far partire lo sciopero. “Tutte le misure che prendeva il nostro distretto erano in linea con quanto concordato con il colonnello Joffre, del dipartimento sicurezza di Fiat Automotive”, scriveva.
Reis si riferiva a Joffre Mario Klein, un colonnello della riserva dell’esercito che aveva aderito all’operazione brasiliana della Fiat sin dai primi giorni. Sotto l’attenta vigilanza di Klein, la Fiat spiava gli operai brasiliani, in collaborazione con la dittatura militare. Queste operazioni di sorveglianza e repressione emergono ora per la prima volta con un’inchiesta durata un anno e fatta da The Intercept Brasile. Lavoro reso possibile grazie ai documenti emersi dagli archivi italiani e brasiliani e dalle interviste fatte a ex lavoratori della Fiat, ex dirigenti sindacali e magistrati dei due paesi. La Fiat operava anche grazie al Dipartimento brasiliano di Ordine politico e sociale, una forza di polizia conosciuta con l’acronimo portoghese di Dops, che agiva indisturbata tra i lavoratori della Fiat.
A Minas Gerais lo sciopero scoppiò il 23 ottobre 1978. Fu uno scontro con forti conseguenze a livello nazionale. Per i lavoratori di tutto il paese quello che accadeva nella Fiat, che aveva investito ingenti risorse e stretto alleanze politiche con la dittatura per costruire la propria presenza in Brasile, dimostrava che era comunque possibile resistere. A questo seguirono nuovi scioperi in altre aziende di auto.
I politici brasiliani avevano promesso tutt’altro alla Fiat, distribuendo depliant in cui l’Istituto nazionale di sviluppo industriale del Brasile cercava di attrarre investimenti stranieri. Durante i negoziati per portare la casa automobilistica in Brasile, il governatore locale Rondon Pacheco diceva agli italiani che il suo paese offriva una forza lavoro pacifica, “giovani depoliticizzati” e poco istruiti, provenienti per lo più da aree rurali, e senza una cultura di lotta sindacale. La promessa di una forza lavoro docile portò le autorità locali a collaborare con la Fiat per alzare di molto gli obiettivi di produzione e quindi inasprire i ritmi di lavoro. L’obiettivo era di sfornare 190mila macchine l’anno. Per accelerare i ritmi la Fiat mandò operai dall’Italia e prese tecnici esperti dagli stati brasiliani di Santa Catarina e San Paolo. Lavoratori qualificati che portavano anche esperienze nell’associazionismo e di sindacato.
I nuovi arrivati spinsero i colleghi all’azione, chiedendo salari più alti e il permesso di istituire un comitato di rappresentanza dei lavoratori. Ma, soprattutto, i lavoratori volevano che si rallentassero i ritmi di produzione, allora insostenibili. Per questo organizzarono e misero in atto lo sciopero. Il lavoro si fermò per cinque giorni, il sindacato firmò un accordo dopo un incontro a cui parteciparono poche decine di persone. Ma la Fiat mantenne solo alcune delle sue promesse e le tensioni rimasero alte. L’anno seguente scoppiò un altro sciopero. Gli scontri con l’azienda cominciavano a diventare troppi per i dirigenti della giovane Fiat Brasile. Quindi l’azienda decise di usare il pugno duro e si rivolse al colonnello Joffre Mario Klein. Klein entrò in Fiat nel 1975, prima dell’apertura della fabbrica di Minas Gerais, su segnalazione del Servizio Nazionale di Informazione, la principale agenzia di spionaggio del Brasile dell’epoca. Klein creò un ufficio nella Fiat dal nome rassicurante: “Sicurezza e informazioni”. Tutto all’insaputa degli operai. Solo dopo divenne chiaro che il suo primo compito era di dirigere un apparato interno di repressione che compilava dossier sui dipendenti.
Il colonnello diventò presto amico personale del primo presidente della Fiat Brasile, Adolfo Neves Martins da Costa. I dirigenti della sede centrale della Fiat in Italia elogiavano Klein. Lo rivela un ex dipendente del dipartimento risorse umane dell’azienda, che ha chiesto di rimanere anonimo. La vicinanza con le principali figure Fiat dimostra come Klein avesse acquisito un’enorme influenza. “Nessuno è mai stato assunto senza che mio marito ne fosse a conoscenza”, dice la vedova di Klein, Maria Antonieta, a The Intercept Brasile in una serie di interviste fatte nel 2017.
I lavoratori non sapevano chi fosse, ma ricordano che la sua presenza li rendeva nervosi. “Un tipo magro, con i baffi ben curati, i capelli grigi a spazzola e sempre vestito in modo impeccabile”, diceva Edmundo Vieira, presidente del sindacato metalmeccanico negli anni ’80. La vedova di Klein ha ricordato che il marito ha fatto almeno un viaggio nel quartier generale internazionale della Fiat a Torino. Ne avrebbe effettuati altri, per capire come gli italiani controllavano gli scioperi. E imparò in fretta.
Quando gli apparati di sicurezza della Fiat italiana presero piede in Brasile, tuttavia, anche i lavoratori in Italia si misero in contatto con i colleghi latinoamericani. “Dal 26 settembre al 4 ottobre 1979, ero a Rio de Janeiro e Betim per monitorare i movimenti degli scioperi e le operazioni della Fiat in Brasile”, ha detto Antonio Buzzigoli, ex rappresentante della Federazione italiana dei metalmeccanici che vive a Torino.
Dopo essere tornato in Italia Buzzigoli, attraverso i metalmeccanici, pubblicò una relazione in cui scriveva che c’era una “polizia interna armata” nella fabbrica di Betim. Il testo diceva che la squadra di sicurezza era composta da 70 agenti, addestrati da “un italiano e in seguito da un brasiliano” e la cui funzione era di esercitare pressioni psicologiche sui lavoratori. Buzzigoli ha osservato che gli agenti monitoravano tutto: tenevano d’occhio i “bagni e le mense, circolando nella fabbrica tutto il giorno”.
Nell’archivio aziendale della Fiat a Torino c’è un documento che risale al novembre del 1980 sull’operazione della casa automobilistica italiana in Brasile intitolato “Statistiche, posizioni e salari”. Un grafico sulla struttura organizzativa dell’azienda mostra che quattro dipendenti facevano parte di una divisione chiamata “sicurezza e informazione” controllata da Klein. Secondo il documento 141 impiegati Fiat rispondevano al capo della sorveglianza, Mauricio Neves, braccio destro di Klein e secondo in comando delle operazioni di sicurezza dell’azienda. La squadra di sicurezza raccoglieva informazioni per minare l’attività politica o avvantaggiare potenziali leader dei lavoratori. In particolare ascoltavano le chiamate dall’unico telefono pubblico disponibile in fabbrica, nel cortile. Gli attivisti sindacali prendono nota: Adriano Sandri, un italiano che lavorava alla Fiat in Brasile, scriveva a Buzzigoli per informarlo che i telefoni erano monitorati e che il capo della sorveglianza teneva traccia delle chiamate relative al sindacato. Un’altra tattica della Fiat era di dare ai dipendenti l’opportunità di raccomandare nuovi assunti, rendendoli così responsabili della condotta delle persone che prendevano. I lavoratori ritenuti pericolosi dalla Fiat venivano arrestati con un pretesto, in genere accusati di aver rubato utensili, e poi licenziati.
L’intelligence sulle attività dei lavoratori si fece strada nel centro di sicurezza della Fiat in due modi: con agenti che facevano il doppio gioco e infiltrati che lavorano per i Dops. La squadra di Klein reclutava agenti tra i sospettati di sovversione. Venivano portati nella stanza della sicurezza della Fiat e veniva loro promessa una promozione o maggior stabilità professionale. In cambio si fingevano alleati con i sindacalisti, per poi spiarli.
Gli infiltrati circolavano all’interno dell’azienda, raccogliendo informazioni dai dipendenti e alle riunioni sindacali, dentro e fuori della fabbrica. Avevano divise sempre pulite, senza macchie, neanche di grasso, e non parlavano con gli altri colleghi. All’inizio passarono inosservati. Poi i lavoratori cominciarono a individuarli: “Camminano a coppie, indossando le uniformi verdi della squadra di controllo qualità, che permetteva loro di accedere a tutte le aree della fabbrica”, dice Antônio Luiz Vasco, che lavorò alla Fiat dal 1978 all’82. “Ma i veri membri del controllo qualità non sapevano chi fossero. E il fatto che avessero divise sempre immacolate era strano”.
Fiat inoltre monitorava da vicino le riunioni dei lavoratori. Intercept Brasile ha scoperto negli archivi pubblici di Minias Gerais un documento su carta intestata dell’azienda con dettagli sulle operazioni di sorveglianza di Fiat sull’attività sindacale. Il documento del 19 aprile 1979 riportava le osservazioni di un ex dipendente, Enilton Simões, al gruppo di lavoratori. A un certo punto chiedeva se i dipendenti della Fiat presenti potessero spiegare come la Polizia Militare operava nella fabbrica. Si legge: “Parlando a nome del sindacato di Betim, chiese se c’era ‘qualche rappresentante dei lavoratori Fiat che può riferire come i dipendenti vengono trattati dalla polizia nella fabbrica?'”.
L’operazione di spionaggio di Fiat in Brasile andò in parallelo con quanto accadeva in Italia durante gli “Anni di piombo” e che si legge negli archivi della Fiat a Torino e del Tribunale di Napoli. A rivelare il sistema di monitoraggio fu l’inchiesta sulle schedature Fiat dell’agosto 1970, condotta dal procuratore Raffaele Guariniello. Dalla perquisizione fatta nella Fiat emersero circa 350mila schede con informazioni sulla vita privata dei lavoratori, inclusi dettagli intimi, raccolti da spie guidate da un ex agente segreto, che operavano per l’azienda. Le informazioni servivano alla Fiat per identificare i capi sindacali legati agli scioperi. Anni dopo la fine delle indagini, alcuni funzionari pubblici e dirigenti della Fiat vennero condannati (reati poi prescritti in appello). Molti dettagli vennero alla luce, ma la storia dello spionaggio italiano è rimasta incompleta.
Una volta chiuso il caso gli archivi del tribunale di Napoli, dove erano conservati i fascicoli, chiesero alla Fiat di riprendersi i 150mila documenti, la metà del totale. L’ufficio archivi nel tribunale ha riferito che non aveva spazio per archiviare tutti i documenti e non è chiaro che fine abbiano fatto. Intercept Brasile ha esaminato quel che resta dei fascicoli di Napoli, dove sono stati trovati alcuni fogli lasciati dalla Fiat. Uno dei documenti trovati è quello su Salvatore B., che viene descritto così: “Singolo, apolitico, vive in affitto in un modesto appartamento con la sorella, anch’ella single, è un lavoratore con una buona condotta morale e civica”. Salvatore era considerato “adatto” a lavorare nello stabilimento di Torino. Un’altra scheda descrive invece Carlo C., considerato “sovversivo”, nonostante non avesse precedenti e avesse una buona condotta morale e civica.
Non è chiaro se la portata dello spionaggio di Fiat sui lavoratori in Brasile abbia mai eguagliato quello sugli operai italiani. Non sono emerse schede del personale approfondite su un gran numero di dipendenti. Se lo spionaggio italiano ha avuto un’appendice in Sud America, forse i documenti sono stati bruciati, come è capitato a molte carte per spegnere i riflettori sui giorni bui della dittatura militare. Alla richiesta di chiarimenti, la società ha risposto di non avere più memoria e documenti sugli eventi di quel periodo.
di Alessia Cerantola, Janaina Cesar, Leandro Demori e Pedro Grassi