Questo diario pensa di conoscere la vera origine del flop degli exit poll in Sardegna: effetto dell’elettorato ormai fuori controllo, volubile, mobile, imponderabile perfino per la scienza dei sondaggi. Con le interviste all’uscita dei seggi più adatte a Scherzi a parte. E con il “testa a testa” tra Solinas e Zedda che per un po’ riscaldava le maratone domenicali, salvo rivelarsi ancora più fasullo del rigore fischiato contro l’Inter.
Una variabile così variabile, quella del voto italiano, che contribuisce a rendere per lo meno imprudente la previsione (l’aspettativa) Fitch, che considera alta “la probabilità di elezioni anticipate nella seconda metà di quest’anno”. Vaticinio piuttosto improprio, visto e considerato che un’agenzia di rating dovrebbe limitarsi a dare i voti all’economia italiana, mentre da questi pulpiti sempre di più si dispensano consigli, non richiesti, alla politica. Perlopiù ignorati dagli elettori che quando si trattò di votare la riforma costituzionale di Matteo Renzi disattesero, senza saperlo, la lezioncina della banca JP Morgan sull’impronta “troppo socialista” della nostra Carta.
Adesso, anche sui ruvidi cittadini sardi non si può tanto contare avendo essi provveduto a scombinare alcune certezze che la politologia prêt-à-porter aveva messo in campo. Salvini doveva sfondare e non ha sfondato, mentre ad essere stati sfondati sono i Cinque Stelle. Pure questa una sorpresa per gli eminenti studiosi dei flussi convinti che il reddito di cittadinanza, di imminente somministrazione, avrebbe indotto le derelitte masse meridionali a confermare festose il voto pentastellato dello scorso 4 marzo. S’è visto come.
Una doppia chiave interpretativa. O le suddette masse al suddetto reddito non credono più. O ci credono ancora ma ritengono di avere già dato (come i napoletani, nel ’52, che eletto sindaco il comandante Lauro dopo l’incentivo della prima scarpa, come da accordi, incamerarono la seconda e tanti saluti).
Dopo Molise e Abruzzo anche nell’isola dei Quattro Mori, dunque, vince ancora il centrodestra ma non ditelo all’uomo della Nutella che (altra apparente stranezza) piuttosto che puntare a fare il premier con Berlusconi e la Meloni (“non ci tornerò mai”) preferisce di gran lunga i due cuori e la capanna con l’“amico” Di Maio (con annesso Viminale e tutti i benefits che desidera). Di Maio che a questo punto proprio perché investito dalla tramontana della sconfitta si aggrappa al 32 per cento delle Politiche e si tiene stretto, strettissimo il governo e possibilmente altri quattro anni di legislatura. Sempre se l’amico Matteo è d’accordo. Con il che smentendo tutti i profeti della crisi gialloverde, sempre imminente (come le dimissioni del ministro Tria) poiché non c’è niente di più saldo della reciproca convenienza che lega il creditore al debitore, il più forte al più debole, chi sale a chi scende. Magari con un rimpasto post Europee se quel voto fotografasse il prevedibile, mutato rapporto di forze tra i contraenti (a Toninelli già fischiano le orecchie).
Quando, infine, nel Pd quasi si brinda al risultato di Sardegna e Abruzzo, come segno di esistenza in vita malgrado la perdita secca delle due presidenze, siamo in pieno intrattenimento elettorale. Con un partito che sprofondato nel segno meno registra qualche segno più, benché privo di guida o proprio perché privo di guida. Dove il probabile vincitore delle imminenti primarie, Nicola Zingaretti, sembra tuttavia disturbato dal mancato fallimento del centrosinistra allargato di Legnini e Zedda. Mentre scruta preoccupato il ringalluzzito (malgrado i problemi familiari o forse a causa di essi) Matteo Renzi in vetta alle classifiche dei libri con il suo ultimo parto, strombazzato in tutti i talk. Insomma il solito odio vigilante a sinistra.
Si replica tra breve in Basilicata e poi in Piemonte. Dove i Cinque Stelle potrebbero risorgere e il Pd di nuovo affondare mentre Salvini chissà. È l’happening elettorale bellezza, l’ottovolante dei partiti, e tu non puoi farci niente.