In tre, non fanno una leadership paragonabile a quella di Matteo Renzi. E sia detto senza giudizi di merito sugli esiti di quella leadership, ovviamente. Ma a guardare il duello che è andato in onda ieri su Sky tra Nicola Zingaretti, Maurizio Martina e Roberto Giachetti, si è notata un’assenza non solo di pathos, ma anche di vera voglia di buttarsi nella battaglia politica.
Nicola Zingaretti è destinato a vincere le primarie di domenica: è stato prudente su tutto, equilibrato sul reddito di cittadinanza e sui magistrati, gentile nei confronti di Renzi. Eppure, ha ribadito che il “Pd è malato”. Forse la sua frase più forte: non poco per uno che si candida a prenderne la guida. Ma che in realtà ha già in testa un piano B: un post Pd, più vicino alla sinistra, o forse solo un post Pd, non troppo chiaro neanche per lui. Roberto Giachetti ha interpretato il ruolo dell’ultrà renziano, regalando i (pochi) momenti di brivido (ovvero di lite) dell’intero duello: ha già un piede fuori, e lo dice pure.
Maurizio Martina, a disagio con se stesso, con la sua mozione e pure con il suo predecessore, era forse l’unico che davvero avrebbe voluto farlo il segretario di questo Pd. Modello fassiniano, ha in testa la figura di un “servitore”, di uno che si rimbocca le maniche e mette tutti d’accordo. Sogni impossibili, che hanno prodotto una campagna congressuale in cui nessuno ha capito chi è e chi rappresenta. Quando gli hanno chiesto con chi dividerebbe la stanza per l’Erasmus, ha risposto prima giustificando la non scelta di Renzi e poi annunciando quella di Calenda.
Le uniche differenze (quasi) chiare tra i tre sono venute sulle alleanze, ma più nei toni, che nei contenuti. Tanto è vero che a parole tutti dicono no a Leu e M5s, ma Giachetti è categorico e Zingaretti poco credibile. La performance di ieri, poi, la dice lunga: i tre spesso non hanno usato tutto il tempo a loro disposizione per le risposte. Tanto meno le repliche. E il suddetto Renzi, che non le manda mai a dire, li stronca così: “Il duello? Non l’ho visto”.